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«Pubblico ministero. Un protagonista controverso della giustizia» è il titolo del bel libro di Edmondo Bruti Liberati, utilissima guida per chiunque intenda approfondire il tema. L’ordito del testo è articolato in quattro parti: la prima dedicata all’evoluzione della figura del pubblico ministero nei diversi ordinamenti da quello angloamericano a quelli del Europa continentale; la seconda al reclutamento e agli aspetti funzionali di una Procura con interessanti digressioni sullo strumento, definito “odioso” ma indispensabile, delle intercettazioni telefoniche; la terza al diverso ruolo svolto dal pubblico ministero nella tradizionale opposizione tra processo accusatorio e modello inquisitorio; la quarta ai discussi temi della obbligatorietà nell’esercizio dell’azione penale, dei criteri di priorità recentemente introdotti dalla riforma “Cartabia” e della separazione delle carriere.
L’autore analizza attentamente le principali critiche rivolte all’attuale assetto del pubblico ministero nel nostro ordinamento, talvolta riconoscendone il fondamento, spesso confutandole: protagonismo giudiziario, arbitrarie scelte nell’esercizio dell’azione penale, abusi nella richiesta di custodia cautelare, troppa contiguità con il giudice, con il risultato di renderlo spesso più sensibile alle ragioni dell’accusa che a quelle della difesa.
Convincenti critiche sono rivolte a una serie di paralogismi, come quello di trarre da ipotetici caratteri del modello accusatorio meccaniche inferenze sulla disciplina da riservare al nostro processo. Il modello accusatorio rappresenta un idealtipo ricavato per astrazione, con un movimento ascendente, dall’osservazione empirica dei processi nei più disparati Paesi: con la conseguenza che occorre estrema prudenza nel compiere il percorso inverso, di tipo discendente, che consiste nel passaggio dall’idealtipo alle regole del codice di rito. Questo naturalmente nulla toglie all’importanza dei modelli, indispensabili come strumento operativo nello studio dei singoli processi, né tanto meno alla circostanza che si possa a buon diritto definire di tipo accusatorio il processo privilegiato dall’art. 111 Cost.; un modello temperato da eccezioni in caso di prove “irripetibili” e da forme di giustizia “negoziata” quando vi consenta l’imputato. Il tema dei rapporti tra verità e processo è sapientemente esplorato nelle pagine che confutano l’idea del processo come gioco o semplice contesa tra le parti.
L’imperdonabile errore commesso dalla Corte costituzionale nelle desolanti sentenze della svolta inquisitoria nel 1992 non è stato quello di porre al centro del processo la ricerca della verità, condizione indispensabile per conservare fiducia nella giustizia; bensì di ritenere che il contraddittorio nella formazione della prova fosse di ostacolo a quel fine, quando invece gli era perfettamente funzionale come il miglior metodo per la ricostruzione dei fatti. Altrettanto sagge e documentate le osservazioni in ordine alla parità tra le parti, sancita dal 2 comma dell’art. 111 Cost., da intendersi non come una assurda eguaglianza di poteri, che neppure la difesa avrebbe interesse ad auspicare, ma, secondo l’insegnamento di Piero Calamandrei, come un rapporto di equilibrio tra le due forze, riconoscendo alla difesa poteri idonei a controbilanciare quelli spettanti al pubblico ministero.
Interessanti ma discutibili, a mio avviso, le pagine in cui l’autore si sofferma sulla “imparzialità” del pubblico ministero, evocando la mitologica figura della parte- imparziale. È un dato di fatto che, ogniqualvolta si profila all’orizzonte il tema divisivo della separazione delle carriere, immediatamente la magistratura reagisce con vecchie formule, un poco arrugginite, come quelle della parte- imparziale o del pubblico ministero- cultore della giurisdizione.
Chi non è giudice nel processo è per logica esclusione “parte”, e tale dev’essere il pubblico ministero. Di “imparzialità” si può ( impropriamente) parlare per il pubblico ministero solo nel senso in cui l’art. 97 Cost. la riferisce alla pubblica amministrazione, ossia come rispetto della legge e del principio di uguaglianza tra le persone nei cui riguardi si esercita l’attività pubblica.
Non vi è alcuna necessità di ricorrere all’ossimoro della parte- imparziale o ad altri slogan per concludere che il pubblico ministero, come rappresentante della società offesa dal reato e come organo rigorosamente soggetto alla legge, è tenuto a chiedere l’archiviazione ogniqualvolta gli elementi a sua disposizione non consentano di formulare una ragionevole previsione di condanna ( art. 408 c. p. p.); allo stesso modo in cui nel dibattimento può chiedere la condanna solo quando vi sia la prova oltre ogni ragionevole dubbio della colpevolezza ( art. 533 c. p. p.). Quanto all’obbligo di svolgere accertamenti anche a favore dell’imputato, è una semplice proiezione della menzionata esigenza di un solido fondamento per l’esercizio dell’azione penale. Il processo penale è un campo di forze in delicato equilibrio tra loro, dove ogni alterazione nel ruolo di un soggetto si ripercuote inesorabilmente sugli altri.
L’esperienza documenta che, quando il pubblico ministero latita nella sua tipica funzione di parte, a compensare la carenza interviene il giudice, convertendosi in accusatore. Dunque, è bene che nel processo il pubblico ministero mantenga la sua veste di organo focalizzato sull’accusa.