«Decisamente, sono l’unico candidato in corsa mancino, maltese- americano, episcopale, gay, millennial, veterano, ma credo che il profilo di qualcuno sia quella cosa che ti colpisce al primo sguardo». Con questa dichiarazione Pete Buttigieg ( si pronuncia con le g dolci) ha spazzato via, in poche righe, la domanda su chi fosse questo giovanotto ( ha 38 anni) fino all’anno scorso un perfetto sconosciuto e oggi un nome che rimbalza in ogni angolo d’America e, al momento, uno dei candidati democratici più credibili per sfidare Trump a novembre.

In realtà, in questo stringatissimo profilo mancano diverse cose salienti, e alcune vanno specificate. Pete è figlio di Joseph, un professore maltese che nel 1976 arrivò negli Stati uniti per insegnare in un’università del New Mexico dove conobbe una collega che sposò, e nel 1980 prese la cattedra di Letteratura europea moderna e teoria letteraria all’Università di Notre Dame, South Bend, Indiana, una cittadina di centomila abitanti nel cuore del Midwest. Qui Pete è nato, nel 1982, qui il padre Joseph è morto l’anno scorso. Joseph Buttigieg era uno studioso di Gramsci, ha tradotto i Quaderni del carcere e ha speso buona parte della sua carriera accademica a farlo conoscere agli americani. Uno le racconta queste cose perché – sembra incredibile – ma nello spulciare la vita dei candidati c’è oggi chi negli Stati uniti pone la domanda di quanto dell’insegnamento “comunista” del padre sia passato nelle vene del figlio.

Pete è stato uno studente straordinario all’università di Harvard, dove si è laureato cum laude nel 2004 in Storia e filosofia e dopo la laurea ha vinto e seguito una borsa di studio Rhodes, una delle più selettive e prestigiose al mondo, e dopo ha seguito ancora un master a Oxford. Dopo Oxford, divenne consulente della McKinsey e nel 2009 prestò servizio nell’intelligence della Marina, dove fu richiamato nel 2014 e inviato in Afghanistan.

In tutti questi anni, fin dall’università, Pete ha svolto attività politica nel campo democratico, seguendo le campagne di vari candidati a diversi incarichi come quella di Barack Obama, nel 2004, per diventare senatore dell’Illinois: nel 2017 tentò il salto nella politica nazionale concorrendo per la carica di presidente del Democratic National Committee, ma si ritirò quando emersero altri candidati con maggiori chance e appoggi. Pete è apertamente gay, regolarmente sposato nel 2018 con Chasten Glezman, un insegnante che è diventato un suo accanito sostenitore e un abile raccoglitore di fondi. Ma soprattutto Buttigieg è “Mayor Pete”, il sindaco della cittadina dove è nato e cresciuto, Souh Bend, Indiana, dal 2012, per due mandati consecutivi, fino alla discesa in campo come candidato presidenziale dem. E questo è un elemento essenziale della sua biografia politica – a parte la curiosità che, laddove vincesse le primarie e l’elezione presidenziale, sarebbe il primo presidente degli Stati uniti balzato direttamente dalla carica di sindaco a quella di capo della più grande potenza economica e militare al mondo.

Non solo stiamo parlando di South Bend, Indiana, cioè del flyover- country, quella parte del paese, al centro, che si sorvola andando dall’est all’ovest o viceversa, da una megalopoli all’altra guardando dall’alto il cuore rurale dell’America; ma nessun sindaco di qualcosa è mai diventato presidente degli Stati uniti, fosse New York o Des Moines, Los Angeles o Denver.

Nel libro pubblicato l’anno scorso, quando decise la sua candidatura – Shortest way to home – Buttigieg ha provato a rendere un “valore aggiunto” il fatto d’essere il sindaco di una piccola città: South Bend può essere ovunque. Immagina se stesso a guida di «un’amministrazione che si basa sui principi del business ma non dimentica il suo carattere pubblico».

Come dice Betsy Hodges, già sindaco di Minneapolis, sua amica e supporter, South Bend è piccolo abbastanza per rappresentare un modello compatto di comunità e ricordare che la voce principale dell’agenda di un sindaco è non dimenticare mai che «il nocciolo del lavoro sono le persone». D’altronde, Buttigieg ha comprato la vecchia casa costruita nel 1905, ristrutturata alla fine degli anni Duemila, che sta proprio di fronte al North Shore Drive, dalle acque gonfie del fiume St. Joseph – un fiume «che ha fretta di arrivare da qualche parte», come scrive Buttigieg nel libro, parlando forse un po’ di se stesso.

Il fatto è che in quel “modello civico” è accaduta una frattura tra la comunità afro- americana e “Mayor Pete” ancora non risolta. Eric Logan, un nero di 54 anni, fu colpito a morte da un poliziotto bianco, Ryan O’Neill, che aveva risposto a una segnalazione su un sospetto che si aggirava in un parcheggio e disse successivamente di trovarsi sul punto d’essere aggredito con un coltello. Non mancarono le proteste della comunità nera, che si sentiva trascurata e maltrattata. In più, c’era stato già, proprio quando Pete s’era insediato, un pasticcio con il capitano, di colore, della polizia locale che poi si dimise e fece causa. Insomma, Buttigieg, ha un “black problem”, e sinora si è votato in stati “bianchi”, Iowa e New Hampshire, e il primo vero banco di prova sarà il South Caroline, dove la comunità nera ha un enorme peso nella scelta del candidato dem.

Buttigieg parla molto di “valori” nella sua campagna, dice che i democratici devono essere in grado di parlare con gli elettori del Midwest, con quelli che tengono molto alla fede, che è tempo che il paese “change the channel”, cambi canale rispetto le recenti battaglie politiche. Ma, oltre a avere – come tutti i candidati dem d’altronde – un programma dettagliato dal salario minimo all’ora al climate change, dai debiti degli studenti alla sanità, in cui spicca l’idea di portare a dieci i membri della Corte Suprema, è la sua stessa persona, la sua stessa identità multipla che Buttigieg offre come “valore”: è il cambio generazionale, quello che chiede agli elettori dem, prima di chiederlo al paese.

E lui è il candidato più giovane. Per il distacco appassionato, si sono sprecati i paragoni con Obama – ma di certo ha un modo opposto a Trump di parlare di politica.

«Avrei potuto essere uno scrittore, ha detto di sé, ma mi manca l’immaginazione». Di certo, è un buon organizzatore. Per il voto del 22 febbraio in Nevada è notevolmente aumentato il budget dei suoi spot pubblicitari – peraltro Buttigieg ha fatto una grande raccolta di fondi – e lo staff operativo è raddoppiato da cinquanta a cento persone.

E ce ne sono già altre cinquanta che lavorano a tempo pieno per il voto del 29 febbraio in South Caroline.

E sulle 165 circoscrizioni in cui si voterà nel SuperTuesday del 3 marzo, ha già una rete di operativi e volontari.

“Mayor Pete” sa fare bene le cose.