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È un dato di fatto: l'appuntamento con il referendum ha storicamente rappresentato il banco di prova fatale per gli uomini politici italiani vissuti come "uomini forti". Lo ha spiegato Francesco Verderami sul Corriere ricordando, in particolare, come la sconfitta nel referendum del divorzio del '74 segnò il tramonto della parabola politica di Amintore Fanfani e del suo personale progetto politico. Una circostanza che, dati i paragoni suggeriti da tempo tra la vicenda del politico aretino e l'attuale premier Matteo Renzi, torna utile, al di là dell'esito negativo registrato da Fanfani e di quello ancora aperto per l'attuale premier, per poter ripercorrere il filo di alcune analogie tra i due che sono state avanzate più volte in questi ultimi anni. Che sono numerose al di là della comune sfida di una vicenda referendaria, anche se nel caso dello scomparso leader democristiano si trattava di una prova abrogativa, mentre con Renzi abbiamo di fronte un referendum istituzionale che punta a introdurre riforme.Intanto, per cominciare, «Renzi si trova - come ha osservato in tempi non sospetti Massimo Bordin, giornalista e storico conduttore di Stampa e regime su Radio radicale - in una situazione che si è verificata ben due volte nella vicenda della Dc, una delle forze progenitrici del Pd. Mi riferisco - è stata l'acuta osservazione di Bordin - al cumulo nella stessa persona del ruolo di segretario del partito e di presidente del Consiglio. Accadde nel 1988 con Ciriaco De Mita e soprattutto nel 1958 con Amintore Fanfani».Cercando poi ulteriori punti di analogia, sottolineiamo che in entrambi i casi ci troviamo di fronte a due esponenti politici espressione di una tradizione democratico-sociale che affonda le radici nel popolarismo cattolico. Non a caso, Matteo Renzi ha svolto la sua tesi di laurea sulla politica di Giorgio La Pira, suo predecessore nel ruolo di sindaco di Firenze, ma soprattutto politico molto vicino a Fanfani, con cui condivise la militanza nella corrente dossettiana, nata intorno alla rivista Cronache sociali, e di cui fu sottosegretario quando l'aretino era ministro del Lavoro nel '47. Un riferimento, quello comune a La Pira, che se approfondito va molto oltre le analogie rilevate da molti sul piano più immediato tra Fanfani e Renzi: spregiudicatezza nei rapporti, determinazione decisionale, machiavellismo evidente nei confronti degli avversari interni oltre che l'ironia e il ricorso alle metafore gergali toscane nel linguaggio. Nel comune riferimento a La Pira emergono, infatti, alcuni tratti progettuali e strategici che accomunano alcune caratteristiche delle due leadership.C'è, a nostro avviso, un episodio particolare che svelerebbe d'un colpo molte cose. Il 30 dicembre del '65 il settimanale di destra Il Borghese pubblicava infatti un'intervista di Gianna Preda a Giorgio La Pira, proprio in quanto esponente politico molto vicino all'allora ministro degli Esteri Fanfani. Il testo, riprodotto in anteprima dai quotidiani, ebbe immediatamente un effetto esplosivo. Cattolico ecumenico, in politica estera al di là degli schemi occidentalisti - aveva suscitato scalpore una sua recente visita, in chiave neutralista, a Ho Chi-Min - il sindaco di Firenze si abbandonava a giudizi forse troppo scoperti. Apriva esplicitamente al dialogo con la Cina di Mao. Dichiarava che Dean Rusk, il segretario di Stato americano, «non sa niente, non capisce molto». E aggiungeva che, in Vietnam, il presidente Johnson avrebbe dovuto presto «fare la pace».Quindi, si schierava con De Gaulle - all'epoca in una posizione europeista non schiacciata nella logica della guerra fredda - che, sosteneva, somigliava molto al suo amico Fanfani. E sosteneva che le politiche estere di Francia e Italia dovevano muoversi in sintonia. Poi, profetizzava un nuovo governo, un esecutivo di ispirazione "nazionale", presieduto dallo stesso Fanfani e «appoggiato da tutti», compresi i parlamentari del Msi oltre che dai socialisti e dai comunisti. In breve, una visione, diremmo oggi, da governo del premier e da "partito della nazione", molto diversa dalle posizioni del governo italiano d'allora.Secondo lo storico Giuseppe Mammarella, La Pira sia per la «trattativa di pace tra Usa e Vietnam del Nord in cui Fanfani risultò penosamente coinvolto», sia per la «clamorosa intervista nel corso della quale il sindaco di Firenze criticava apertamente i governanti americani e lodava De Gaulle paragonando il ruolo politico di Fanfani a quello del generale», costrinse Fanfani alle dimissioni anche se per pochi mesi. A febbraio, comunque, tornerà ministro degli Esteri del secondo governo Moro. Ma da allora in poi gli resterà incollata l'etichetta di "De Gaulle italiano"?D'altronde, il trasversalismo fanfaniano veniva da lontano. Già nel '55, dopo la caduta e poi la morte di De Gasperi, tutto un versante della politica italiana - dai socialdemocratici e i socialisti ai missini sollecitati in questo dal suo collega all'università Ernesto Massi, anche lui cattolico di formazione negli anni del fascismo e d'orientamento sociale - pensarono a un suo governo "nazionale" in grado di mettere fuori il Pci e la destra democristiana. Ma, sempre nel suo percorso, alcune costanti lo distinsero dalla correnti bipolari canoniche della Dc. Da capo del governo poi, nel '58 vide crescere il suo prestigio soprattutto per la politica estera: venne infatti subito invitato a Parigi da De Gaulle.Il suo secondo mandato da premier, nel '62, fu l'avvio del riformismo nel nostro paese: il suo esecutivo di centrosinistra avviò subito una serie di riforme, tra le quali la più significativa fu la nazionalizzazione dell'energia elettrica. Poi, l'istituzione della Commissione nazionale per la programmazione economica e infine la nuova tassa sui dividendi azionari e sui profitti immobiliari, al fine di colpire la speculazione nelle aree edificabili delle grandi città.Certo, anche quel governo cadde. Ma Fanfani venne ripescato alla Farnesina. E sempre con la grande ambizione, che spesso affiorava dai suoi atti e dai suoi discorsi, di una grande svolta per l'Italia nel suo segno. In particolare, nel periodo '62-68, Fanfani fu contemporaneamente segretario della Dc (apparentemente padrone dell'apparato del partito e controllore della maggioranza dei gruppi parlamentari) e presidente del Consiglio e poi ministro degli Esteri su posizioni diverse dall'atlantismo degasperiano, un qualcosa che - per la forza delle analogie - ricorda alcuni tratti dell'europeismo renziano.Proprio l'aspirazione di Fanfani a presentarsi come il De Gaulle italiano costituì, nel '75, la falsariga di un profilo del leader cattolico scritto dal politologo Giorgio Galli e che lo fisserà per anni in questa definizione. E stando ai documenti dei servizi segreti britannici recentemente studiati e pubblicati da Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella, Fanfani veniva definito un leader «intelligente, lesto e instancabile. Ambizioso e dotato di grandi capacità organizzative? Molti tra i suoi critici italiani lo considerano un potenziale De Gaulle».In effetti, nel luglio '75, a Londra, Fanfani aveva incontrato il laburista Jim Callaghan, ministro degli Esteri del Regno Unito. E il politico toscano non aveva esitato a parlare con «cinismo» della Dc (il suo partito), come si legge nel verbale della conversazione. Callaghan, dal canto suo, aveva incitato Fanfani a costruire e realizzare «un programma di governo forte». Come tutta risposta il leader democristiano aveva spiegato come l'ostacolo principale fosse il sistema proporzionale italiano, vagheggiando in qualche modo un nuovo sistema istituzionale e una nuova legge elettorale. E in ogni modo, aveva chiesto a Callaghan di «ammonire i socialisti e i socialdemocratici italiani a non cooperare con i comunisti».Se ai giorni nostri si parla delle convergenze di qualche figura proveniente dal centrodestra con Renzi, anche Fanfani - che pure era uomo della sinistra democristiana - non mancò di muoversi nella stessa direzione. Tra i tanti, ad esempio, finì alla corte dell'aretino l'intellettuale Antonio Lombardo - catanese, collaboratore di testate come Nuova Repubblica o L'Orologio, vicino alla Nouvelle Droite di Alain de Benoist - che nel '68 entrò nella Dc e nel giro di pochi anni diventerà uno dei politologi di riferimento dell'ala fanfaniana tanto che, negli anni '80, finisce nella Commissione della presidenza del Consiglio per la modernizzazione delle istituzioni ed è autore di Democrazia cristiana e questione nazionale e del saggio La Grande Riforma. E quando, nel '73, Amintore Fanfani col suo factotum Giampaolo Cresci decideranno di fondare una rivista politica - Prospettive nel mondo - chiameranno come redattore capo Claudio Quarantotto, ex firma del Borghese. «Per decenni - spiegherà il giornalista - i democristiani avevano delegato ogni attività culturale solo ai preti, alle parrocchie?». E tra i collaboratori fissi di quella rivista ci saranno personaggi come Fausto Gianfranceschi e Alfredo Cattabiani, riferimenti qualificati della migliore cultura di destra, quella della Rusconi anni '70.E che anche questo aspetto torni paradossalmente con Renzi lo dimostra, ad esempio, l'amicizia con l'attuale premier di un intellettuale disorganico, ma non certo di sinistra, come il medievista Franco Cardini. «A farmi decidere per dichiararmi in più circostanze a favore del Sì - ha scritto, rivolgendosi direttamente al premier - è stato proprio il fatto che una delle ultime cose al mondo che vorrei è il farti mancare il mio sostegno per quel pochissimo che può valere». Spiegando in un'altra occasione: «Vorrei contribuire a permettere a Renzi di terminare il suo mandato di governo, di riqualificare la qualità dei politici del paese (queste le sue intenzioni) e di accoppiare la costruzione di un esecutivo più forte a un rilancio della vita politica come base per il rinnovamento della società civile, anche avviando un serio sistema di alternanza. Non vedo quali vantaggi il paese trarrebbe da una crisi di governo dalla quale probabilmente nascerebbero governicchi di coalizione e di transizione». Insomma, sono davvero tanti i punti in comuni tra Fanfani e Renzi.Ma per tornare alla sollecitazione iniziale, quella del referendum come banco di prova fatale, il dubbio legittimo è forse un altro. Tutto dipende dall'esito, ma solo il risultato finale dirà se, nelle analogie tra leader forti, Renzi subirà il destino di Fanfani oppure quello di Bettino Craxi che, nell'85, sfidò una parte maggioritaria del paese - il Pci, la Cgil, l'estrema sinistra, i Verdi ma anche il Msi - sulla scala mobile e vinse oltre le aspettative e i sondaggi. Al 5 dicembre quindi la risposta.