Quel 16 agosto del 1977 fu ritrovato drammaticamente disteso sul pavimento del bagno della sua casa di Memphis. Stava male da un po’ di tempo, e andava davvero sempre peggio. In mano gli trovarono il libro che stava leggendo: The Scientifc Search For The Face Of Jesus di Frank Adams. Del resto, in quei suoi ultimi giorni portava al collo una croce cristiana, una stella di Davide ebraica e una mezza luna musulmana. La solita conversione alla vigilia della fine? Lui, comunque, non aveva chiuso occhio tutta la notte, ingoiando come faceva sempre medicinali e sonniferi. Alle 19 di quel 16 agosto avrebbe dovuto imbarcarsi su un aereo per andare a Portland, nel Maine, dove sarebbe cominciata l’ennesima serie di concerti. Ma alle due del pomeriggio la sua fidanzata, Ginger, lo scopre a pancia in giù nel bagno: la corsa in ospedale è inutile, alle 15 e 30 viene dichiarato morto. Fu questo l’addio a questo mondo del re del rock’n’roll, Elvis Presley.

Nel solo ultimo anno di vita, otto mesi, gli erano state prescritte diecimila dosi di medicinali: eccitanti e sonniferi. La rockstar accusava da qualche anno gravi problemi di ipertensione, un’arteriosclerosi coronarica, danni al fegato e problemi al colon. Infatti è senz’altro meglio non andarli a vedere i video degli ulti- mi anni della rockstar. Elvis appare gonfio, ingrassato, imbolsito, devastato dalle medicine, un qualcosa che rischia di cancellare la gloria, lo splendore di quel bacino che roteando selvaggiamente a metà degli anni 50 aveva annunciato all’America e al mondo che era in atto la rivoluzione, non solo musicale ma di costume ed esistenziale, del rock& roll. Il 16 agosto ’ 77, Elvis Aaron Presley, questo il suo nome completo all’anagrafe, aveva solo quarantadue anni, essendo nato a Tupelo, nello Stato del Mississippi, l’ 8 gennaio del 1935.

Ma noi – tralasciando commozione di massa e fenomeni di delirio generalizzati alla notizia della sua scomparsa – torniamo a ventitré anni prima, al 5 luglio del ’ 54, a Memphis, nello Stato del Tennessee. In uno studio di registrazione, la Sun Records di proprietà di Sam Phillips, un discografico che aveva fatto incidere dischi a musicisti come B. B. King, si ritrovano personaggi intenzionati a cambiare per sempre il mercato discografico e l’universo della musica giovanile. Uno di questi è lo stesso Phillips, che sembrerebbe avere un grande problema irrisolto: «Se solo riuscissi a trovare un bianco che canta con la voce di un nero – ripeteva di continuo – farei un milione di dollari». E quel 5 luglio del 1954 in studio c’è un ragazzone di campagna col ciuffo in tutta evidenza, che per vivere fa il camionista e che ha già inciso un disco a 45 giri con una canzone per sua mamma. Ma adesso è accompagnato da un chitarrista vero alla chitarra elettrica, Scotty Moore, e un contrabbassista di tutto rispetto, Bill Black, Per tutto il giorno provano un vecchio brano del 1946. Ma non ne cavano niente da incidere. Fino a che, ad un certo punto, Elvis riprende la chitarra e parte con un ritmo veloce a cui gli altri vanno dietro. Il discografico rimane a bocca aperta: che musica è questa? Non si era davvero mai sentito nulla del genere. Il ritmo è elettrizzante, il ragazzone canta come un pazzo e trascina davvero nel ritmo. Pochi lo sottolineano, ma è proprio quel pomeriggio che nacque il rock’n’roll.

Il brano, va ricordato, si chiama That’s Allright Mama. Sarà subito un successo nel circuito di Memphis, tanto che un dj arriverà a trasmetterla per quattordici volte di seguito. È nata una star, anzi un re, il “Re” del rock’n’roll… «Di questa musica – ha scritto Gianni Borgna in Il tempo della musica. I giovani da Elvis Presley a Sophie Marceau ( Laterza) – il simbolo, l’eroe, il capostipite, ben più di Bill Haley, è appunto Elvis Presley, il leggendario “Elvis the Pelvis”, come sarà di lì a poco ribattezzato dalle sterminate schiere dei suoi fans. Anche se i maligni sostengono, in parte a ragione, in parte a torto, che il suo clamoroso successo Presley lo deve al fatto di essere un bianco, di fare cioè un rock molto più annacquato, e per ciò stesso più gradito all’establishment di quello, ben più duro e aggressivo di un Chuck Ber- ry, di un Fats Domino, di un Little Richard».

Vale la pena riportare quanto annota, all’inizio del capitolo a lui dedicato, il critico e storico della musica Carl Belz nella sua fondamentale Storia del rock ( Mondadori): «Elvis Presley è l’artista più importante che sia emerso durante i primi sviluppi del rock, tra il 1954 e il 1956. La sua straordinaria popolarità sorpassò quella di qualsiasi altro artista apparso in quegli anni, e rimase incrollabile per almeno un decennio, fin quando i Beatles e altri artisti giovani apparvero verso la metà degli anni Sessanta. Non tutti i dischi che Presley ha fatto hanno un valore storico o l’impatto estetico delle sue prime opere, ma il fatto stesso che sia rimasto sulla cresta dell’onda così a lungo ne fa un caso particolare nella storia della musica in genere». Un mito, la prima rockstar della storia, che si impose definitivamente e trionfalmente sin dal febbraio 1956 con una delle sue composizioni più straordinarie e dall’impatto immediato, quell’Heartbreack Hotel che gli consentirà di conquistare il primo posto nelle classifiche “pop” e “country and western” e uno dei primi cinque posti anche nelle classifiche di “rhythm and blues”. Nella sua relativamente lunga carriera, conquisterà sessantotto dischi d’oro ( un record ineguagliato per i suoi anni), venderà la bellezza di oltre 250 milioni di dischi ( 20 milioni solo del suo rifacimento in inglese di ’ O sole mio, trasformato per l’occasione in It’s now or never), farà guadagnare alla sola Rca una cosa come settanta milioni di dollari.

«A differenza di Haley e degli altri pionieri del rock – spiegava ancora Gianni Borgna – non sono le parti strumentali delle sue canzoni a essere particolarmente significative ( a eccezione dell’uso, qua e là ispirato, della chitarra elettrica). Significativa, straordinariamente significativa è invece la voce di Presley, una voce gutturale, sensuale, capace di passare improvvisamente dalle note alte alle basse; una voce che esprime lamento e invettiva, dolore e rabbia, che equivale a un mezzo espressivo, che produce cambiamenti di ritmo da togliere il fiato…».

Il fatto centrale della “rivoluzione” introdotta da Presley fu che il suo successo era strettamente legato alla sua “immagine” quale personaggio del media system. «Con Elvis – sottolinea Belz – il rock ebbe il suo primo artista decisamente spettacolare». Divenne da subito un idolo le cui apparizioni in pubblico era estremamente documentate sulla stampa, in radio e in tv, e i suoi fan erano continuamente assetati di particolari riguardanti la sua vita, anche quotidiana, il suo ambiente, i suoi gusti, le sue passioni. Questo interesse era un fatto nuovo e inedito nel mondo dei musicisti e dei cantanti e mise in grado gli editori dei media di speculare sul desiderio del pubblico di conoscere i personaggi che stavano dietro i dischi di successo. Il suo ciuffo, il suo abbigliamento sgarciante e luccicante, i suoi gesti, tutto entro a far parte della sua “immagine”. «Quando cantava – descrive Belz – lui ballava in modo aspro e sexy che ispirò il ben noto epiteto di “Elvis the Pelvis”. I capelli lunghi, le basette e il suggestivo danzare di Presley attirarono anche critiche negative nei confronti della sua musica e del rock in genere. Agli adulti conservatori degli anni Cinquanta la nuova musica sembrava una manifestazione di giovinezza ostile e ribelle. Per il suo pubblico entusiasta la danza spontanea di Presley era la controparte visiva delle sensazioni che il suo modo di cantare ispirava».

Anche per tutto questo, Elvis fu il primo artista rock a intraprendere una carriera cinematografica autonoma con i tanti suoi film ( trentatré girati in sedici anni), tra i quali Jailhouse Rock, Love me tender, King Creole, Kissin’ Cousins.

«Prima di Elvis il mondo era in bianco e nero. Poi è arrivato... ed ecco un grandioso technicolor» disse in proposito il Rolling Stones Keith Richards. Che dire, infatti, dell’emulazione e del fenomeno di costume che ispirò in tutto il mondo? Solo per guardare all’Italia, basta pensare a Celentano, a Bobby Solo e a Little Tony e – per rendersi conto della popolarità del fenomeno – al personaggio descritto da Carlo Verdone nel film Gallo cedrone, dove l’attore e regista romano interpreta un vitellone convinto di essere il figlio naturale di Elvis e che si veste proprio come Presley.

Fatto sta che Elvis, anche con i suoi testi oltre che con le sue pose, stilò e definì alcuni canoni del giovanilismo del secondo dopoguerra del Novecento. Anche con le sue canzoni, impose ovunque il mito dell’adolescenza e dei teenagers. I contenuti delle canzoni sono infatti più o meno sempre gli stessi. Noi resteremo sempre come siamo «forever young and beatiful», saremo sempre figli, mai genitori e tu sarai sempre «la mia ragazza», canta Presley con toni accorati. È un mondo, quello del rock’n’roll, e di quello di Elvis in particolare, in cui non si diventa mai grandi, un mondo costantemente dominato dalla poetica del piccolo: “little girl”, “little darling”, “little baby”. Le sue protagoniste sono quasi sempre delle girls (“ragazze”), mai o quasi mai delle women (“donne”). Queste piccole, graziose, ragazze ispirano sistematicamente – come spiegava Borgna – sentimenti di dolcezza e di tenerezza. Love me tender, intona Elvis nella canzone che è un autentico repertorio delle formule della poetica sentimentale del rock’n’roll: «Amami teneramente / amami dolcemente, non lasciarmi mai andare / tu hai reso completa la mia vita / e io ti amo tanto… / Amami teneramente / amami affettuosamente / dimmi che sei mia / sarò tuo per tutti gli anni / fino alla fine del tempo».

Che il mito dell’adolescenza sia il vero tema del rock di Elvis lo dimostra, qualora ce ne fosse bisogno, l’insistenza con cui nelle sue canzoni si ritorna sul riferimento al viaggio. «Ho viaggiato sulle montagne / e anche attraverso le valli / ho viaggiato notte e giorno / correndo dal principio alla fine» canta Presley in Tryn’ to get to you. Anche per questo, da subito s’impose la leggenda metropolitana che Elvis non fosse morto. Che non potesse essere morto. Per l’immaginario forse non avrebbe potuto morire. Elvis, insomma, a quarant’anni dalla morte è vivo e canta ( e balla) insieme a noi.