Un altro “sovranismo” è possibile. Potrebbe intitolarsi così, se il termine non fosse inviso ai due autori, il volume scritto da Gennaro Malgieri e Silvano Moffa e che invece, più opportunamente, porta come titolo: Sovranità nazionale, sovranità europea. Note per reagire alla globalizzazione

( Fergen, pagine 139, euro 12).

L’idea di fondo è che il rapporto fra le vecchie sovranità nazionali del passato, espresse nella forma politica dello Stato, e sicuramente in crisi e non solo in Italia, e la nuova sovranità europea del futuro, non ancora costruita o elaborata finora in forme molto discutibili, non c’è un rapporto di aut aut ma di et et. Solo recuperando, aggiornando, rafforzando, la sovranità nazionale si può infatti mettere mano alla costruzione di una sovranità europea che non si sostituisca ad essa ma le si affianchi proficuamente. Ciò per l’Italia significherà prima di tutto ricomporre il tessuto nazionale, ricostruire le fondamenta di un’appartenenza comune e ripristinare un senso dello Stato andato perduto ( e comunque sempre debole). I due autori hanno scritto e messo insieme due saggi separati: uno di impianto più “filosofico” e fondato sui principi ideali, quello di Malgieri; l’altro pragmatico e politico ma anche di chiarificazione concettuale e di scenario, quello di Moffa.

Malgieri inizia col chiedersi retoricamente se davvero non abbiamo più bisogno dello Stato, come certa retorica globalista va predicando. Lo Stato nasce in età moderna per garantire la sicurezza e si fa nazionale per segnare un’appartenenza segnata da un’identità non meramente politica ma comunitaria e culturale. In questo modo le sue istituzioni, non sentite come un meccanismo meramente procedurale, riescono a generare negli animi quell’amore della Patria che è la garanzia prima di un vivere civile libero e ordinato. Questo “magnifico” dispositivo col tempo si è appesantito in modo così eccessivo di funzioni, attribuzioni, competenze, che è stato facile metterne in evidenza, apostrofandole come “statalismo”, le mille incongruenze e contraddizioni, e soprattutto inefficienze, che sotto la sua ombra sono andate maturando. Sarebbe però profondamente errato, secondo Malgieri, gettare il bambino ( lo Stato) insieme all’acqua sporca ( lo statalismo). La bulimia pervasiva dello statalismo ha indebolito, e non rafforzato, lo Stato. Il quale si è poi ulteriormente indebolito per un processo di sottrazione dei propri poteri e delle proprie prerogative che si è mosso sia nella direzione che va dall’alto al basso sia in quella opposta: poteri sovranazionali e locali hanno, in sostanza, cooperato in una sorta di “convergenza parallela”. Con i trattati di Maastricht ( 1992), Amsterdam ( 1999) e Nizza ( 2000), l’Unione Europea, pur non creando una sovranità continentale, ha di certo contribuito non poco a erodere quelle nazionali. Il risultato è che le forze impersonali del mercato e della tecnocrazia, che sono la vera “bestia nera” per gli autori di questo libro, hanno potuto operare indisturbate senza che il loro predominio, fatto fra l’altro di omologazione e conformismo, potesse trovare sacche serie di reazione. Un’Unione Europea che dissolve gli Stati nazionali è però suicida: essa così facendo non fa che distruggere sé stessa che solo su di essi e accanto ad essi può nascere: Detto altrimenti, l’Europa deve inglobare e non sopprimere le differenze e le particolarità che definiscono e fanno essere unico il nostro continente. Con la bocciatura poi da parte dell’Irlanda del Trattato di Lisbona del 2007, avvenuta un anno dopo, il processo di costituzionalizzazione dell’Unione è sostanzialmente fallito. D’altronde, i «principi agnostici ed anti- identitari» su cui la Costituzione era stata concepita «ne hanno descritto la natura sostanzialmente antieuropea». Malgieri osserva: «Quasi tutti, allora, fecero finta di niente e istituzioni, classi politiche e burocrati si sono comportati come se nulla fosse accaduto».

Accanto alla finanza tecnocratica o alla tecnocrazia finanziaria, il libro di Malgieri e Moffa individua i propri nemici nel «mondialismo, nel pensiero unico, nell’indifferentismo culturale e nel relativismo etico». La nazione è allora l’ancora di salvezza, ma essa deve configurarsi «non come una ripresa degli stilemi del vecchio nazionalismo arroccato attorno ai principi dell’intangibilità dei ‘ sacri confini’ e moralmente giustificato da una improponibile “volontà di potenza” declinata in imperialismo, ma come un atteggiamento che trascende il particolarismo egoistico e afferma il diritto alla sovranità per tutti i popoli e tutti gli Stati, a prescindere dall’organizzazione giuridica di cui sono dotati».

La sovranità affidata allo Stato nazionale, come insieme coerente di istituzioni proprie di uomini appartenenti a uno stesso territorio e facenti parte di una stessa comunità, è quanto di più democratico possa concepirsi. Ed è, nello specifico del nostro continente, l’orizzonte in cui è nata e su cui potrà prosperare anche in futuro la libertà. Qui il riferimento è al conservatorismo moderno, non statico ma rinnovantesi continuamente, di Roger Scruton. Il pensatore inglese, senza concedere nulla alla nostalgia del passato, smonta infatti i tre topoi che reggono l’ideologia globalista e antinazione: “1) le nazioni sono superate; 2) le nazioni portano alla guerra; 3) le nazioni producono il nazionalismo”. Più in particolare, si fa riferimento al “Manifesto di Parigi” redatto da un gruppo di politici e intellettuali, guidati da Scruton, riunitisi nel maggio 2017 nella capitale francese. Il Manifesto, significativamente intitolato Un’Europa in cui possiamo credere, fu firmato il 7 ottobre di quello stesso anno, cioè il giorno dell’ anniversario della battaglia di Lepanto quando l’Europa cristiana fermò l’avanzata islamica.

Il testo, composto di 36 paragrafi e riprodotto integralmente nell’appendice del volume di Malgieri e Moffa, intende riaffermare i valori fondanti della civiltà europea contro il duplice attacco proveniente al nostro continente sia per vie esterne ( l’avanzata dell’Islam e di culture ostili) sia interne ( la secolarizzazione e un relativismo etico sempre più pronunciato). Soprattutto in merito a quest’ultimo aspetto, in esso si distingue la “libertà vera” da una “libertà falsa” che si sarebbe affermata in Occidente nell’ultimo periodo. Si tratta di una libertà «assolutamente a senso unico» : viene veduta come la liberazione da ogni freno: libertà sessuale, libertà di espressione di sé, libertà di “essere sé stessi”. La generazione del 1968 considera queste libertà come vittorie preziose «su quello che un tempo era un regime culturale onnipotente e oppressivo». Non si accorge tuttavia del conformismo e dell’omologazione, essa sì oppressiva della libertà, che essa, pur con i migliori intenti, finisce per instaurare per questa via. Un focus importante toccato dal volume concerne la demografia, cioè il calo sensibile di nascite nei paesi europei ( a fronte della crescita esponenziale che avviene in Africa e altrove). Un problema che è culturale prima che contingente: l’edonismo, la voglia di futuro e il declino dell’istituto familiare sono tutti elementi che cooperano in tal senso.

Lo sbocco di queste problematiche è nel prendere sul serio sia il federalismo sia l’idea di sussidiarietà, che affida alle entità più grandi quelle che sono l problematiche politico- amministrative che non possono essere risolte a livello più locale. Non si devono creare sovrapposizioni di funzioni, ma ristabilire la sovranità nei sistemi rappresentativi in crisi e stabilire un ordine gerarchico e ordinato di poteri ( meglio se all’ordine di un sistema presidenzialistico). In questo modo la sovranità europea sarebbe sì l’ultimo gradino della scala, ma non interferirebbe in modo pervasivo, come fa adesso, nelle politiche più specifiche e particolari degli Stati e degli organismi regionali e locali.

Sono processi che, in qualche modo, seppur confuso, contraddittorio e imperfetto, sono già in corso. La politica e la storia sono sempre molto spuri e “prosaici”, e perciò andrebbe forse adottato un atteggiamento critico sì, ma più comprensivo, nei confronti dei sovranismi reali. Ma dalle pagine soprattutto di Malgieri si nota un certa ripulsa estetica verso certi movimenti o personaggi alla Bannon. Lo capiamo, ma mi sembra che criticare l’idea di una “Internazionale sovranista” solo perché ossimorica sia un po’ debole. Chissà che proprio da quel rozzo materiale, opportunamente sgrossato e reso presentabile, non stia per emergere la politica dei nuovi tempi? Quella di cui, come ci dice Moffa nel suo contributo, mancano ancora le categorie interpretative.