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C’è un buco nero che ha cittadinanza sulla terra da vent’anni esatti, e non c’è verso di chiuderlo. E’ un buco nero che risucchia diritti e vite umane, lontano dagli sguardi indiscreti, a Guantanamo bay. Dal 2002 ci hanno messo piede 780 persone, ora ne restano 35. Prigionieri, “nemici combattenti”, quasi tutti rilasciati nel corso degli anni, e sparpagliati in 59 paesi. Per un totale di 8 condanne emesse. Sì, otto.
A Guantanamo succede così: ci finisci senza un’accusa, senza un processo, senza una data d’uscita. E così è successo anche a Murat Kurnaz, protagonista della vicenda che ispira il legal thriller tedesco di Andreas Dresen, distribuito in italia da Wanted Cinema con il titolo Mamma contro G. W. Bush.
Presentato ad ottobre alla Festa del Cinema di Roma, il film sarà in sala dal primo dicembre, con il patrocinio di Amnesty International. Che da anni denuncia le gravissime violazioni dei diritti umani da parte delle autorità statunitensi: dagli interrogatori in regime di isolamento, all’alimentazione forzata durante gli scioperi della fame. Detenuti inginocchiati, ammanettati, bendati. Torturati, come Murat. Della cui vicenda si racconta in questa commedia che mescolando il dramma con l’esilarante ha ottenuto due Orsi d’argento all’ultimo festival di Berlino: uno per la sceneggiatura di Laila Stieler e l’altro per l'interpretazione della protagonista Meltem Kaptan.
E’ lei a vestire i panni di Rabiye, una casalinga turco- tedesca che vive con la famiglia in una casetta a schiera di Brema. E’ lei ad arrivare fino all’uscio della Casa Bianca, in tasca una fotografia di Murat. Suo figlio, uno dei tre, operaio navale di 19 anni. La cui storia, come tutte le altre, comincia nel 2001, quando gli Stati Uniti dichiarano “guerra globale al terrore” dopo gli attentati dell’ 11 settembre.
In quello stesso anno, dall’altra parte del mondo, Murat decide di lasciare la Germania per volare in Pakistan. Vuole studiare il Corano e rafforzare la sua fede musulmana, prima di portare la sua giovane moglie da Ankara a Brema. Ma le cose non vanno così. «Mamma, stasera non torno a cena», spiega Murat, prima che se ne perdano le tracce. Dall’altro capo del telefono Rabiye non si raccapezza. E sprofonda nell’angoscia, prima ancora di capire che quello è l’inizio della sua odissea giudiziaria. Dov’è finito Murat? Non lo sa la polizia, e neanche l’imam del quartiere. Lo sa la stampa, che nel frattempo presidia casa di Rabiye: sui giornali suo figlio è già diventato “il talebano di Brema”.
La Procura avvia un procedimento. Si muove il governo. Ma Rabye non cede al sospetto. Cosa può fare una mamma contro Guantanamo? Si aggrappa a una lettera, arriva da Cuba. E scrive Murat: “non c'è un solo motivo per il mio arresto”. Ma di che sta parlando? Rabiye lo capirà solo dopo, mettendo piede in uno studio legale: Murat è stato arrestato in Pakistan, lo hanno venduto per 3mila dollari alle forze armate statunitensi. Tanto si paga per un sospetto “terrorista”. L’avvocato Bernhard Docke ( Alexander Scheer) lo sa bene. E accetta il caso: comincia la battaglia legale internazionale.
Un impasto di diplomazia, aule di tribunale, e pressione mediatica combinate nel nome di un innocente. Così si proclama Murat, a cui nessuno crede. Nemmeno suo padre. Ma Rabiye se ne infischia. E anche il suo legale: tutti hanno diritto a difendersi, spiega Docke. Lo ribadisce a noi spettatori, e persino ai suoi colleghi di studio, tentati anche loro di deporre le garanzie in nome dell’emergenza. Non Docke, non il team di attivisti e avvocati che otterranno il rilascio di Murat nel 2006, cinque anni dopo. Nel mezzo Angela Merkel si era presa la guida della Germania, promettendo il suo sostegno al caso.
Si era pronunciata anche la Corte Suprema degli Stati Uniti, a favore dei detenuti. Si era scoperchiato il vaso. Si era saputo del waterboarding, il famigerato annegamento simulato. Dei pestaggi, della privazione del sonno. «Ogni prigioniero viene portato davanti a un tribunale militare che riferisce se un prigioniero è un combattente nemico o meno. Chiunque sia dichiarato nemico combattente può essere internato a tempo indeterminato nel campo con questo titolo, senza che la colpevolezza o l’innocenza siano provate in un procedimento legale, senza prove, senza che ci sia un controllo indipendente - senza mai vedere un giudice. Lo stato di diritto è stato abolito», spiega Docke in un’intervista del 2007, un anno dopo il “Military Commission Act”, con il quale per la seconda volta ai prigionieri è negato il diritto di appellarsi a un tribunale statunitense.
Che quando Murat torna a casa, torna dalla terra di nessuno. Dove il diritto è morto. Ma qualcuno sopravvive, con una barba lunga fin sotto i piedi, e accanto una mamma disposta a fare il giro del mondo partendo dal tinello della propria cucina.