Il giorno in cui nel 1997 arriva la notizia che Dario Fo ha vinto il premio Nobel, le facce sono tutte un po' così. Come quelle di oggi davanti al riconoscimento dato a Bob Dylan. Un po' incredule, un po' sdegnate, un po' anche felici. Dario Fo per molti in Italia non era uno scrittore, un vero scrittore, era un attore, poco più di un giullare. Ma invece quel premio non solo era meritato, ma era perfetto per la sua attività di scrittore, di inventore di una lingua - il grammelot - che poi è stata anche la colonna sonora della sua vita variegata, ricca, spuria.Ma che cosa è il grammelot? Per capirlo bisogna fare un passo indietro. Fo nasce a Sangiano il 24 marzo del 1926, ancora piccolo si trasferisce a Porto Valtravaglia: sono paesini della Lombardia, popolati da pescatori di frodo, da contrabbandieri, da girovaghi. E' da questi personaggi, dalla loro lingua mescolata con la commedia dell'arte, che Fo tira fuori una cosa mai sentita prima, una serie di fonemi inventati ma efficaci: è la nascita del suo stile, della sua poetica, del suo mondo artistico: dissacrante, irriverente, immaginifico. Ancora non è nato Mistero Buffo, ma negli anni 50 Fo è già li che scalcia, che ci prova, che vuol entrare nel mondo di quel teatro che lo vedrà grande protagonista per tutto il 900. Non è un caso che fin da subito va in scena al Piccolo insieme a un altro grande della scena milanese, Franco Parenti. Sono i primi monologhi, recitati in radio, che prendono il nome di Poer Nano.Il vero incontro, che gli cambierà la vita, deve ancora avvenire. Nella compagnia delle Sorelle Nava, incontra Franca Rame, giovane, brava, bella. Si sposeranno nel 1954 e non si lasceranno fino alla fine. «Sogno sempre Franca - raccontava negli ultimi giorni prima di morire - Ma va sempre via». Lei lo aveva lasciato nel 2013.Negli anni 50, il periodo d'oro sta per iniziare. Ma prima è come se la coppia Fo-Rame debba avere il vero battesimo di fuoco: la censura da parte della Rai. Visti i successi, nel '62 gli viene offerta la conduzione del programma più famoso, il programma per eccelleza, Canzonissima. Alla Rai di Ettore Bernabei non vanno giù i monologhi dei due attori: troppo politici, troppo rivolti ai temi sociali. Provano a mettere bocca su quanto dicono e la coppia, dopo sette puntate, lascia la trasmissione tra le polemiche. Per quindici anni non metteranno più piede a Viale Mazzini, per 15 anni saranno tenuti lontani dal piccolo schermo. Ci torneranno nel 1977 con Il teatro di Dario Fo, ma ormai lui è una star a livello mondiale.La svolta vera è il '68. Il Pci e le case del popolo, che per anni diventano il suo palcoscenico, lasciano il posto alla rivolta, a un teatro che sfascia tutto e che appoggia la protesta o la denuncia come è il caso di Morte accidentale di un anarchico, dedicato al caso Pinelli. Seguono Pum, pum! chi è? la polizia!  oppure Il Fanfani rapito, dove rabbia e satira si mescolano. Si disegna il profilo di un Fo impegnato, dalla parte dei "compagni": insieme a Franca Rame crea il gruppo Nuova scena e il collettivo La Comune, ma è con Soccorso rosso che dà una mano concreta a coloro che hanno problemi con la giustizia come Sofri, Pietrostefani, Bompressi, accusati di aver ucciso Calabresi dal pentito Marino, che diventa anche oggetto di un'altra sferzante commedia. Sono gli anni più forti, sia dal punto di vista creativo che dal punto di vista politico. Fo è Fo, rappresenta artisticamente una generazione, un modo di vedere il mondo. Un incanto che forse per lui ma anche per il pubblico, non si ripete più. Allora bianco e nero sono netti, è facile scegliere da che parte stare e Dario Fo ha dalla sua la forza di una mimica che sovverte tutto, come voleva fare quella generazione.L'incanto dopo finisce. I decenni successivi sono più complessi, anche politicamente. Dario Fo nel 2005 tenta di diventare sindaco di Milano, ma non ci riesce, pur essendo stato in precedenza consigliere comunale. Ormai la sinistra gli sta stretta, anche se lui fino alla fine continua a dichiararsi tale. La svolta arriva con il Popolo viola prima, poi con il Movimento Cinque stelle. Per molti è un tradimento. E' soprattutto in questa occasione che rispunta la polemica sul suo aver fatto parte, giovanissimo, della Repubblica di Salò. Fo tenta di negare, poi di minimizzare: «Lo ho fatto per coprire mio padre antifascista», disse una volta. Ma è un discorso che non affronta mai volentieri. Fino a quando non trova la nuova casa. Sui Cinque stelle dirà che gli ricordano le case del popolo, che sono il futuro. Diventa un loro nume tutelare. Grillo anche ieri lo ha omaggiato con parole di grande calore: «Resterai sempre con noi». Fo, negli ultimi anni, non ha perso occasione per appoggiare i suoi ragazzi, bacchettando quella sinistra di cui aveva fatto parte. Eppure, per chi ha amato la sua inventiva (qualcuno ha parlato visto l'eclettismo di un Leonardo dei nostri giorni) fa effetto pensarlo dedito a un movimento che sembra non amare la cultura e preferisce solleticare la pancia delle persone. Viene in mente il titolo di una sua commedia - che ricorda anche Fulvio Abbate: il padrone vince perché sa mille parole, l'operaio solo cento. Eppure negli ultimi anni, Fo sembra si sia adattato a chi fa leva sulle cento parole, che non si sforza di inventare una lingua nuova, un ragionamento nuovo. Per fortuna, lui lo ha fatto. E ci lascia le sue opere. La storia dei grandi artisti, non solo nel caso di Fo, ma sempre, va al di là delle piccole o grandi biografie politiche.