Alle 17 di sabato 24 luglio 1943 i 27 componenti del Gran Consiglio del Fascismo entrarono nel cortile di palazzo Venezia, sede della presidenza del consiglio. La circolare con la quale il segretario fresco di nomina del Pnf Carlo Scorza aveva convocato la riunione, su mandato di Mussolini, specificava l’abbigliamento richiesto: «Divisa fascista, sahariana nera, pantaloni corti griogioverdi». La decisione del duce di convocare il Gran consiglio, che non si riuniva dal 1939, era stata una sorpresa e aveva offerto l’occasione adatta a Dino Grandi, ex ministro degli Esteri e poi della Giustizia, ex ambasciatore a Londra, leader dell’ala più moderata del fascismo, di portare a fondo l’attacco a cui pensava già da mesi: era finalmente, con le sue parole, il «gioco grosso».

Grandi aveva in tasca un odg che sulla carta contava, nei calcoli fatti alcuni giorni prima da lui e dal suo più stretto alleato, Luigi Federzoni, su 4 voti certamente a favore contro 7 contrari, con la maggioranza indecisa. Già il voto in sé era una novità assoluta: non era mai successo che il Gran consiglio dovesse contarsi. Nel 1925, nel corso del confronto con il duro Farinacci, rappresentante del fascismo più intransigente, Mussolini era stato tassativo in un telegramma drastico inviato allo stesso Farinacci: «Odg Gran Consiglio non fu votato perché i mei ordini non si votano, si accettano e si eseguiscono senza chiacchiere aut riserve perché Gran Consiglio non è parlamentino». Così era sempre stato.

Le cose erano cambiate ma non era affatto sicuro che Mussolini avrebbe consentito il voto: per ogni evenienza Grandi si era portato dietro un paio di bombe a mano. I capi del fascismo scoprirono che il cortile di palazzo Venezia era occupato da reparti della milizia in assetto di guerra. I consiglieri entrarono nella sala del pappagallo e presero posto intorno al grande tavolo a forma di ferro di cavallo. Il posto del duce era al centro, coperto da un drappo rosso con le insegne del fascio. Mussolini arrivò per ultimo, in divisa di comandante della Milizia. Scorza ordinò il saluto al duce, poi due militi chiusero le porte. Grandi chiese che la riunione fosse verbalizzata da uno stenografo. Mussolini rifiutò.

Arrivava così all’ultimo atto una crisi del regime che datava sin dall’autunno dell’anno precedente, quando i rovesci militari da una parte e la malattia di Mussolini, costretto sempre più spesso a casa dall’ulcera, avevano reso evidente a tutti la necessità di «fare qualcosa». Sul cosa, però, nessuno aveva le idee chiare e anche le confuse suggestioni erano spesso opposte. I capi del fascismo speravano che Mussolini passasse spontaneamente la mano dimettendosi oppure, sospettando che la sua malattia fosse più grave di quel che era in realtà, ne attendevano la morte. Il re aveva discretamente permesso all’ex governatore della Dalmazia e da febbraio sottosegretario agli Esteri Attilio Bastianini di prendere contatti con gli alleati. Il fascismo intransigente, guidato ancora da Farinacci, mirava a rafforzare l’alleanza con la Germania delegando ai tedeschi la guida dell’esercito.

In febbraio Mussolini operò un maxi rimpasto governativo, sostituendo tutti i responsabili dei ministeri che non facevano capo a lui personalmente, nei quali furono però sostituiti i sottosegretari. In maggio sostituì con Scorza il segretario del Pnf. Non poteva bastare, a fronte dei tracolli militari delle forze dell’Asse e in particolare italiane.

Il 13 maggio 1943, con la caduta di Tunisi, si concluse di fatto la campagna d’Africa: era evidente che il prossimo fronte sarebbe stato all’interno della fortezza europea e che l’attacco sarebbe iniziato proprio sbarcando in Italia. L’ 11 giugno fu invasa, dopo tre giorni di bombardamenti, e subito conquistata Pantelleria. Nei progetti di Mussolini avrebbe dovuto essere un bastione inespugnabile. Il 24 giugno il duce pronunciò il famoso “discorso del bagnasciuga”, nel quale di fatto annunciava l’imminente invasione. Il 10 luglio lo sbarco in Sicilia segnò la fine del regime. L’esercito italiano non fu quasi in grado di opporre resistenza.

A quel punto l’unica speranza di Mussolini era convincere Hitler ad accordarsi con la Russia per la fine delle ostilità sul fronte orientale, così da concentrare le forze tedesche su quello italiano. I due dittatori si incontrarono il 19 luglio nella villa del senatore Gaggia a Belluno, in quello passato poi alla storia come “incontro di Feltre”. Il Fuhrer quasi non fece aprir bocca all’alleato, concionò per ore e Mussolini, che aveva già provato invano a convincere il nazista a concludere la pace con la l’Urss, non ebbe il coraggio di parlare, nonostante le insistenze di un furente generale Ambrosio e di Bastianini. Il vertice fu interrotto e funestato dalla notizia del primo bombardamento su Roma.

Tre giorni dopo, il 22 luglio, ci fu un lungo colloquio tra Mussolini e Vittorio Emanuele III. Il racconto fornito poi dai due protagonisti differisce profondamente ma sembra certo che il duce si fosse impegnato a sganciarsi dalla Germania entro due mesi. Il re era a quel punto deciso a deporre Mussolini e la scelta per la successione era già caduta sul maresciallo Pietro Badoglio. Ma Vittorio Emanuele, che disprezzava quasi tutto il mondo che lo circondava e nutriva poche illusioni sulla possibilità di salvare la monarchia, ci teneva in modo quasi maniacale a rispettare le prerogative della monarchia costituzionale. Per agire voleva che ci fosse un passo formale che gli permettesse di farlo senza violare le regole, e quel passaggio poteva essere solo un voto del Gran consiglio.

Scorza, nel frattempo aveva scritto due lettere al duce, chiedendogli di rinunciare alla guida degli affari militari lasciando i ministeri delegati. Grandi, che tra i fascisti era forse il più intelligente e scaltro, sapeva che il Gran consiglio non avrebbe mai votato un odg che chiedesse esplicitamente la testa del duce. Scommise sullo scarso acume dei consiglieri. Annacquò l’odg. Fece della richiesta di restituire al sovrano la guida della guerra il fulcro del documento, tanto che in un primo momento persino Scorza si disse favorevole ad approvarlo. Il progetto dell’ex ambasciatore era invece dettagliato: prevedeva la destituzione del duce e subito dopo un ribaltamento delle alleanze, passando a fianco degli alleati. Lo stesso Grandi, ex ambasciatore a Londra e amico personale di Churchill, avrebbe potuto gestire personalmente la delicatissima fase. La corona era di diverso avviso. Il progetto del re era articolato su due tempi: prima la fine del regime, poi, in un secondo momento, l’armistizio. Il disegno di Farinacci, che come Scorza aveva visto in anticipo l’odg Grandi e aveva in tasca un suo odg, era diametralmente opposto. Alla vigilia del Gran consiglio erano dunque in campo tre strategie, ciascuna delle quali prevedeva l’uscita di scena di Mussolini. Il duce ne era consapevole. Lo stesso 22 luglio aveva incontrato Grandi, per la presentazione di un libro.

Il colloquio doveva durare un quarto d’ora, si protrasse per oltre un’ora e un quarto nonostante ci fosse in anticamera il feldmaresciallo Kesselring. È impossibile che i due non abbiano discusso del documento Grandi. Il duce, in ogni caso, era stato avvertito delle manovre in corso dai tedeschi, nel vertice con Hitler.

Perché, dunque, decise di non fare nulla? Secondo Renzo De felice, semplicemente perché non poteva permetterselo: far arrestare una parte sostanziale delle gerarchie fasciste avrebbe reso inevitabile l’intervento del re, la guerra civile, l’intervento diretto dei tedeschi.

Non esistono verbali della riunione del 24 luglio e le varie ricostruzioni, tra cui quella scritta dallo stesso Grandi nel 1944, sono tutte inevitabilmente parziali. Nel 2013 è stato rintracciato dallo storico Fabio Toncelli un presunto verbale manoscritto la cui autenticità è dubbia anche se non esclusa, tanto più che coincide in molti punti con i risultati a cui era arrivato De Felice nella sua monumentale biografia di Mussolini.

Fu naturalmente il duce ad aprire la riunione: difese a spada tratta l’alleanza con i tedeschi, si scagliò contro la viltà delle truppe italiane. De Bono si pronunciò in difesa dell’esercito. Farinacci accusò invece lo stato maggiore di aver sabotato l’alleanza con i tede-schi.

Grandi illustrò il suo odg, Farinacci tirò fuori il proprio. Alle 23.30 Mussolini propose di aggiornare la seduta al giorno seguente. Grandi si oppose e Mussolini capitolò. L’interruzione durò solo una ventina di minuti.

Alla ripresa si pronunciò Scorza, la cui autorità in quanto segretario del partito era seconda solo a quella del duce. A sorpresa si schierò con Mussolini e presentò un suo odg in questo senso. In precedenza si era detto favorevole al testo di Grandi e lui stesso aveva chiesto a Mussolini di dimettersi dai ministeri militari: evidentemente aveva capito, sia pure in ritardo, il senso della manovra di Grandi. Probabilmente fu in questa fase che, a tarda notte, il clima si fece incande-scente.

Forse fu tirata fuori una rivoltella. Di certo Grandi passò a De Vecchi, sotto il tavolo, una delle sue due bombe a mano.

Mussolini, alla fine, mise ai voti l’odg Grandi prima di quello Scorza. Fu approvato con 19 voti a favore, tra cui quello di Galeazzo Ciano, genero di Mussolini, 7 contrari e un astenuto. Farinacci aveva già lasciato la sala. E’ probabile che il duce non considerasse quel voto come davvero fatale. Si era impegnato col re ad abbandonare l’Asse entro due mesi e riteneva che il sovrano lo avrebbe appoggiato, tanto più che, ottemperando al voto del Consiglio, aveva già accettato di essere sostituito alla guida dei ministeri militari e aveva cercato per tutta la mattina Grandi, che non si era fatto trovare, per proporgli il ministero degli Esteri. Di certo quando il giorno dopo, domenica 25 luglio, incontrò Vittorio Emanuele a villa Savoia insistette nel sostenere che il voto del Gran consiglio aveva carattere solo consultivo.

Il colloquio fu breve. Vittorio Emanuele annunciò a Mussolini che sarebbe stato sostituito alla guida del governo da Badoglio. Gli garantì protezione per lui e tutta la famiglia. Alle 17.20 Mussolini lasciò villa Savoia: fu arrestato sulla porta e trasportato con un’ambulanza militare nella caserma della Scuola allievi carabinieri e di lì nella caserma dell’Arma di via Legnano. La notizia della fine del fascismo fu data alla radio solo alle 22.45.

«Politicamente», scrive De Felice, Mussolini morì quel giorno: «Il Mussolini della RSI non sarebbe stato che l’ombra, il fantasma del Mussolini morto il 25 luglio. Un fantasma patetico, spietato e grottesco al tempo stesso, il cui unico atto veramente umano e sincero sarebbe stato quello di non sporcare in quella sua torbida vicenda postuma il suo “figlio prediletto”, di non volere che Il Popolo d’Italia riprendesse le pubblicazioni».