Il 1968 fu l’anno della rivolta generale. In Occidente e nel mondo comunista. Durò pochissimo questa rivolta, e terminò, nel corso dell’estate, con la caduta dei due personaggi dell’establishment che avevano tentato di raccoglierne la spinta e di trovare una mediazione tra vecchio potere e rivoluzione.

All’est il personaggio che interpretò questo ruolo fu Alexander Dubcek. In Occidente fu Bob Kennedy. L’uccisione di Bob Kennedy segnò la fine del ‘ 68 nel mondo capitalistico. Anche se quella rivolta era stata così potente, e fino a tal punto aveva coinvolto la parte più lucida della generazione del baby boom, che le conseguenze durarono ancora anni e anni. In parte sono ancora vive. Una settantina di giorni più tardi, il 20 agosto, i carrarmati sovietici entrarono a Praga e schiacciarono al suolo la rivoluzione dolce di Dubcek, la splendida primavera di Praga. I vecchi poteri tornarono più saldi di prima. Di qua e di là dalla cortina di ferro. Fu ristabilita la pace, la pace come la intendeva Tacito...

L’uccisione di Bob Kennedy avviene esattamente una settimana dopo la fine del ‘ 68 francese. Il 30 maggio Charles de Gaulle aveva parlato alla radio e aveva chiamato i suoi a scendere in piazza e a dimostrare che esisteva una Francia forte e silenziosa in grado di opporsi ai ragazzi del maggio di Daniel Cohn Bendit e dei sindacati. Si radunarono quasi un milione di persone ai Champs Elysee a sostenere i conservatori. E 20 giorno dopo, alle elezioni legislative anticipate, convocate con mossa azzardatissima ma vincente da De Gaulle, i gollisti e i conservatori trionfarono e le sinistre furono rase al suolo ( ci misero 12 anni per riprendersi).

Così il ‘ 68 - dopo che anche in Germania era stato fermato a revolverate, in aprile, con il ferimento del leader più importante, il giovane Rudy Dutschke - restava vivo solo negli Stati Uniti, sostenuto dalla ribellione dei neri, soprattutto dopo l’uccisione di Martin Luther King ( anche quella in aprile) e dall’opposizione di tutti i giovani alla guerra del Vietnam. E Bob Kennedy, figlio del più elitario establishment democratico, aveva trovato un ruolo decisivo di cerniera, per se. Si era proposto come uomo della mediazione. E cioè come leader in grado di portare l’establishment al tavolo dei negoziati con la rivolta e di portare la rivolta dentro l’establishment. La sua era una ipotesi politica ambiziosissima, di rivoluzione vera e propria, non contro la borghesia ma dentro la borghesia. Bob, in marzo, dopo la rinuncia del presidente uscente Lyndon Johnson ( un texano che Bob odiava) aveva deciso di correre alle primarie democratiche. E di provare a succedere al fratello.

Quelle del 1968 furono le primarie più importanti della storia degli Stati Uniti. Nel campo repubblicano non ci fu grande battaglia. Fu una corsa a tre ma con un vincitore designato. Il vincitore designato era Richard Nixon, ex vicepresidente di Eisenhower, ex sfidante sconfitto - di John Kennedy nel 1960. Il suoi antagonisti erano il miliardario Nelson Rockefeller, un liberal contrario alla guerra del Vietnam, e il governatore della California Ronald Reagan, leader dell’ala più di destra del partito.

Nel campo democratico fu una bolgia. All’inizio era scontato che la nomination sarebbe toccata a Johnson. Ma alle primarie del New Hampshire ( cioè le prime, che si tenevano in febbraio) Johnson vinse ma non di molto. Aveva un solo avversario, ed era il senatore Eugene McCarthy, un democratico di sinistra quasi socialista. McCarthy raccolse la protesta dei giovani e ottenne moltissimi voti. Johnson capì che le cose si mettevano male e annunciò il suo ritiro. A questo punto la corsa alla nomination si accese. Scese in campo Hubert Humphrey, che era il vice presidente in carica, poi scese in campo un reazionario razzista del sud, George Wallace, e infine Bob Kennedy, che decise di contendere a Mc Carthy la guida della corrente di sinistra. La differenza tra Kennedy e McCarthy era semplice: McCarthy voleva solo dare voce alla protesta, fare da punto di riferimento per il movimento. Kennedy aveva un progetto molto più grande, politico. Voleva usare il sessantotto come leva per modificare il volto dell’America e per cambiarne la politica e il “sogno”.

Finì tutto in quella notte del 6 giugno, quando Kennedy vinse in California e si avvicinò moltissimo alla nomination. E poi fu messo fuori gioco da otto colpi di rivoltella nella cucina di un hotel di Los Angeles. Dal giorno della sua morte, in America il clima cambiò radicalmente. Le primarie le vinse Humphrey, e si svolsero a Chicago in un clima infernale. Migliaia di giovani, guidati da Abbie Hoffman, il capo degli hippy, e da Bobby Seale, il capo dei neri, misero a ferro e fuoco la città. Scontri, feriti, arresti. I sette capi della rivolta, celebrati in molti film e pezzi musicali, furono arrestati, processati e condannati a molti anni di galera.

E fui così che il placido e onesto Hubert Humphrey andò al macello nello scontro con Nixon, a novembre,. Sconfitto nettamente. In realtà nel voto popolare fu quasi un pareggio ( appena mezzo milione di voti a favore del repubblicano) ma il meccanismo dei grandi elettori stritolò Humphrey.

C’è una cosa curiosa in tutta questa vicenda. Humphrey e Johnson passarono alla storia come dei boia reazionari. Non era così. Humphrey era un esponente della sinistra democratica. Johnson, no, ma la sua politica sociale fu avanzatissima. Si impegnò fino allo stremo delle sue forze per battere il razzismo, e ottenne molti buoni risultati. E fece compiere un salto al welfare.

Pensate che poco prima che la guerra del Vietnam lo travolgesse, Johnson aveva preparato un piano per battere la povertà, che si fondava - proprio così - sul reddito di cittadinanza. Eravamo nel 1964. Grillo andava al ginnasio e Di Maio sarebbe nato circa 30 anni più tardi...