«Vorrei dire tutto ciò che c'è da dire in una sola parola. Odio quanto possa succedere tra l'inizio e la fine di una frase», scriveva Leonard Cohen nel primo dei suoi due romanzi, Il gioco preferito, uscito per la prima volta nel 1963, e riproposto nel 2002 dall'editore Fazi, con la traduzione di Chiara Vatteroni. Il secondo, Belli e perdenti, è stato pubblicato in Italia nel 1972 da Rizzoli, e successivamente da Fandango e Minimum Fax. La vocazione di Leonard Cohen è sempre stata la poesia. Alla poesia e a quella parola unica è rimasto condannato per tutta la vita: il primo album di reading è del 1956, e contiene otto poesie recitate da Cohen. Negli anni Sessanta va a vivere a Hydra, isoletta greca dove la sua infinita storia d'amore con Marianne Ihlen - scomparsa pochi mesi fa e alla quale ha rivolto un saluto straziante in una lettera d'addio - tocca il culmine, e si dedica, oltre che alla musica, alla stesura ininterrotta di versi e alla ricerca poetica. Quasi tutte le raccolte di versi sono state pubblicate in Italia da Minimum Fax e tradotte da Giancarlo De Cataldo e Damiano Abeni: Confrontiamo allora i nostri miti, Le spezie della terra, Parassiti del paradiso, L'energia degli schiavi, Morte di un Casanova. Nel 2006 è uscito Il libro del desiderio, per i tipi di Mondadori, con la traduzione di Livia Brambilla e Umberto Fiori, un libro di poesie e disegni, una sorta di paradigma dell'esistenza. Cohen scriveva di depressione - malattia di cui soffrì per la maggior parte della sua vita -, di morte, di suicidio, di amore, sesso e religione nel periodo storico in cui si diffondeva la cultura hippy, andando decisamente controcorrente. «I was born like this, I had no choice, I was born with the gift of a golden voice», il verso di Tower of Song che lo rappresenta pienamente. E aveva davvero una voce d'oro, una "voce da rasoio arrugginito", come la definiva lui stesso. Canadese come Alice Munro, Margaret Atwood, Mordechai Richler, di religione ebraica, si ritirò sulle colline di Los Angeles per diventare monaco buddista, ma senza mai abbandonare l'ebraismo. Le radici familiari e la morte del padre, che spezzò in due la vita di Cohen, sono argomento di molte poesie contenute in Confrontiamo dunque i nostri miti: «Recando doni di fiori e noci caramellate/ la famiglia venne a vegliare il primogenito, / mio padre, e si dispose intorno al letto/ dove lui giaceva su un cuscino/ intriso di sangue, / il cuore mezzo marcio/ la gola secca dal rimpianto. / E sembrava così ovvio, l'odore così incombente, / così assolutamente necessario, / ma gli zii profetizzarono sfrenatamente, / promettendo vita come oracoli deliranti; / e la piantarono solo al mattino, / dopo che lui era morto/ e io mi ero messo a urlare». I temi della sua poetica sono la declinazione moderna dell'eterno conflitto tra Eros e Thanatos. Hai amato abbastanza, contenuta nel Libro del desiderio, ne è l'esempio più lampante: «Io ti dissi che sarei stato il tuo amante. / A queste parole ridesti. / Persi per sempre il mio lavoro. / Entrai nel novero dei morti». Ci sono parole che hanno senso solo se cantate: non è questo il caso delle canzoni di Leonard Cohen, la cui Suzanne è stata tradotta e cantata da Francesco De Gregori prima e da Fabrizio De Andrè, poi. Nessuno è mai stato come Leonard Cohen, nessuno lo sarà mai più. Nel 2011 ha vinto il Premio Principie delle Asturie per la Letteratura. Nella sua lettera d'addio a Marianne Ihlen ha scritto: «Penso che ti seguirò molto presto. Sappi che ti sono così vicino che se tendi una mano puoi raggiungere la mia». In Bird on a wire cantava: «Like a bird on a wire/ like a drinken in a midnight choir/ I have tried in my way to be free» ("Come un uccello sul filo, come un ubriaco che grida di notte, ho cercato a modo mio di essere libero". So long, Leonard, e grazie di aver reso più liberi anche noi.