Quante volte abbiamo ripercorso la storia degli ultimi settant’anni, la storia dell’Italia repubblicana? Eppure, devo dire che raramente mi è capitato di farlo con tanta soddisfazione finale come in questo caso, cioè dopo aver letto il denso e ampio libro di Piero Craveri intitolato L’arte del non governo. L’inarrestabile declino della Repubblica italiana ( Marsilio, pagine 592, euro 25). Il fatto è che questo volume, rispetto ai molti altri, pure eccellenti, sul tema, dà alla fine l’impressione di far cogliere al lettore il cosiddetto bandolo della matassa, quello attorno a cui un po’ tutti i fili, di volta in volta messi in luce, finiscono per raccogliersi. Sarà forse perché Craveri riesce a connettere la storia politica a quella economico– sociale e anche a quella istituzionale– amministrativa; sarà forse perché quella che egli racconta non è una storia di “magnifiche sorti e progressive”, ma una storia appunto di “declino” ( una storia vista col senno dell’oggi), fatto sta che, alla fine dell’itinerario, molte cose ci sembrano più chiare. Che il nostro Paese, come ma molto più di altri dell’Occidente, sia in discesa, è opinione comune, oltre che stato psicologico generale. D’altronde, i dati macroeconomici sono chiari e inoppugnabili. Quello che però altrettanto chiaro non è a tutti, e che questo libro contribuisce a chiarire, è che il declino data da molto lontano, era già presente in nuce negli anni in cui tutto sembrava andare per il verso giusto e l’Italia si era lasciata alle spalle la distruzione della guerra e aveva addirittura fatto ingresso nel ristretto club dei paesi più industrializzati e ricchi del mondo.

Le scelte di allora, degli “anni del boom”, quelli a cavallo fra i Cinquanta e i Sessanta, o meglio le non scelte di cui parla Craveri nel titolo, erano già un segno della crisi, come qualcuno fra i più avveduti e responsabili esponenti della classe dirigente faceva allora presente. Craveri pensa in primo luogo a Ugo La Malfa, uno dei pochi protagonisti in positivo della sua storia, il quale non a caso veniva apostrofato come una “Cassandra”. Si può es- sere più o meno d’accordo con Craveri. Il sottoscritto, per esempio, lo è solo in parte, ed ha seri dubbi a che le ricette lamalfiane, basate su una sorta di “dirigismo liberale” e sull’idea guida della “programmazione economica”, fossero sempre le migliori e più auspicabili per il nostro Paese. D’altronde, se il “non governo”, proprio perché è una “arte”, è anche una virtù e non sempre e solo un vizio. I processi, anche quelli economici, vanno sempre un po’ lasciati a loro stessi, controllati e anche governati, ma governati in senso formale e non sostanziale, con leggi e regole di contesto non con norme di condotta rigide e predeterminate.

Credo che anche l’idea di un primo momento d’oro e positivo della Cassa per il Mezzogiorno e di altre “partecipazioni statali” vada rivisto e circoscritto. Ma un conto sono le ricette, altra l’analisi. E da questo secondo punto di vista ha davvero ragione Craveri quando individua in La Malfa e in pochi altri le “teste lucide” della nostra storia politica. Soprattutto però egli ha ragione quando collega il declino di oggi, soprattutto ma non solamente economico, a quel groviglio di poteri dispersi e sovrapponentisi che hanno fatto dell’Italia un “non Stato”.

Craveri colloca negli anni Sessanta i prodromi della crisi, quasi in coincidenza e sovrapposizione con l’apice del nostro miracolo ( nel 1963 fu raggiunta la piena occupazione mentre qualche anno prima, nel 1959, la lira aveva conquistato lo scettro di moneta più forte).

Io, fatto tesoro delle pagine di questo libro, mi spingerei a dire che gli anni ‘ 68, ‘ 69 e ‘ 70 sono quelli simbolicamente più significativi. il ‘ 68 è, in tutto il mondo, l’anno della contestazione, che però in Italia assume da un lato un carattere molto politicizzato, più marxista che libertario, e dall’altro allunga le sue propaggini fino agli anni più recenti. È una vera e propria frattura, culturale e generazionale, la quale coinciderà con la secolarizzazione dei costumi del nostro Paese, ma che pure costituirà un ulteriore tassello di quella “ideologia italiana”, tutto fuorché liberale, che permea la cultura e la mentalità comune ancora oggi ( il primo era stato, negli anni immediatamente successivi alla guerra, quel collante fra le culture cattoliche, comuniste e azioniste che aveva dato vita all’ideologia dell’antifascismo).

Il ‘ 68 avrà anche una propaggine terroristica nel decennio seguente, con tutta la crisi che ne consegue a livello di sistema politico so- prattutto dopo il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, un contesto che Craveri illustra in pagine di indubbia efficacia.

Il ‘ 69 è invece l’anno delle rivendicazioni sindacali, che si concretizzeranno in quella che presto diverrà un’altra palla al piede del nostro Paese: la ipersindacalizzazione della nostra società e, per converso, la politicizzazione del sindacato. A cominciare dalla CGIL, vissuta come una “cinghia di trasmissione” del PCI, che avrebbe poi portato entrambi a sbattere negli anni Ottanta sul referendum sulla scala mobile ( ma prima ancora c’era stata a Torino la “marcia dei quarantamila” che certi equilibri aveva cominciato a rompere).

Infine, il 1970 fu l’anno in cui il dettato costituzionale sull’istituzione delle regioni a statuto ordinario fu attuato con le elezioni dei primi consigli. Fu un modo per “consociare” sempre più al potere i comunisti, che negli enti locali erano in maggioranza. Si risolse tuttavia sempre più, soprattutto al Sud, in un nuovo e spesso incontrollato meccanismo di spesa.

L’idea di diffondere il potere, piuttosto che controbilanciarlo, di evitare di individuare con precisione un responsabile unico e ultimo delle decisioni politiche, era d’altronde una facilmente prevedibile conseguenza dell’impalcatura costituzionale: della costituzione formale, non meno di quella materiale che si era andata con gli anni sedimentandosi.

Per un liberale le regole sono il meccanismo per imbrigliare il potere, e sono quindi importanti. Nel nostro caso, la Grundnorm, la “nor- ma fondamentale”, che pur aveva una nobiltà e una ragion d’essere al suo esordio, non è stato certo elemento ultimo nell’impaludamento successivo del nostro sistema politico. Gli elementi per ricostruire questi snodi nel libro di Craveri ci sono tutti. Così come anche una descrizione dei generosi tentativi fatti, prima dell’ultimo referendum, per riformare la Carta.

Molto ponderato è il giudizio, tutto sommato positivo, che Craveri dà di Craxi, così come quello, tutto sommato negativo, che dà dell’altro e successivo “grande riformatore” della politica italiana, quel Silvio Berlusconi di cui si mettono qui in chiara evidenza i limiti politici ( nonché il conflitto di interessi) ma senza mai soggiacere alla retorica e all’inconsistenza sostanziale dell’antiberlusconismo di maniera. Appropriata è anche l’immagine, politicamente fallimentare, che viene fuori di Berlinguer e in genere di quel PCI che si è fatto travolgere dagli eventi non riuscendo a decidersi mai, fino alla fine della sua parabola, fra un’irrealistica “alternativa di sistema” e una compiuta socialdemocrazia. Un po’ forse troppo negativo invece il giudizio su Andreotti, la cui figura politica viene forse troppo appiattita su una cifra di cinismo e di mancanza di visione politica. Ad un certo punto, Craveri contrappone la concezione della politica di Andreotti a quella di Moro: per il primo, la politica deve riflettere e adeguarsi alla realtà; per il secondo la deve indirizzare. Craveri non ha dubbio che, giusta la sua idea di fondo del “non governo, Moro avesse ragione e Andreotti torto. Il che può concedersi, ma nella sola misura in cui riflettere gli umori di una società, anche quindi i peggiori, significhi assecondarli.

È però da chiedersi, ancora una volta, se il dirigismo, in genere, sia la migliore ricetta, e se lo sia stato, in particolare, per l’Italia repubblicana. Molto importanti sono poi anche le pagine che Craveri dedica al tentativo delle più sensibili fra le élite italiane a provare a risolvere con un “vincolo esterno” i problemi più sostanziali della nostra economia, a cominciare dal “debito pubblico ( destinato a crescere a dismisura dalla “crisi petrolifera” di metà anni ’ 70 fino ad oggi, tranne una breve parentesi negli anni ’ 80 di cui non si approfittò).

Fu sopratto Guido Carli che concepì questa politica e cominciò poi a mettere in pratica nel corso dei negoziati di Maastricht. Al fondo, c’era un’idea pessimistica sulla capacità dell’Italia di autocorreggersi, soprattutto di rivedere e diminuire la spesa pubblica ( utilizzata a fini di consenso politico da una famelica classe politica nazionale e locale). Ancorarci all’Europa fu poi la parola d’ordine con la quale Ciampi e Prodi, attraverso un processo ben ricostruito da Craveri, ci portarono a entrare da subito nell’euro laddove sarebbe forse stato più opportuno aspettare un po’.

Problemi seri, storici e di lunga data quelli dell’Italia, ci ricorda questo libro. Che lascia, non c’è dubbio, l’amaro in bocca a chi ancora tiene a questo Paese e non intravede vie d’uscita. In ogni caso, la capacità di legare i diversi aspetti della “vita materiale” della Repubblica è, come dicevo all’inizio, il grande merito di questo libro. Che va ad integrarsi con altri libri sullo stesso argomento usciti in quest’ ultimo anno, di tono meno pessimistico ma anche forse con qualche limite concettuale in più. Mi riferisco in particolare alla storia di Guido Crainz, uscita da Donzelli, e che molto si concentra più sulle mentalità e le visioni del mondo degli italiani ( Storia della Repubblica. L’Italia dalla Liberazione ad oggi, pagine VII– 387, euro 27,009). E mi riferisco anche a quella di Agostino Giovagnoli, uscita per Laterza, che colloca la vicenda repubblicana in un orizzonte internazionale e di geopolitica, dando fra l’altro molto spazio ai rapporti del nostro Stato con la Chiesa cattolica e degli italiani col cristianesimo ( La repubblica degli italiani. 19214– 2016), pagine 388, euro 24).