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Se vi capita il venerdì mattina di ascoltare Radio Radicale, incastonati poco dopo le sette e mezzo ci sono otto minuti radiofonici a cura di Matteo Marchesini, critico letterario e scrittore. I temi affrontati sono diversi dalle recensioni di libri all’analisi di raccolte poetiche a ritratti dei protagonisti della repubblica delle lettere, i malandati attuali e le autorità d’un tempo - ma trovano un’aria di famiglia nel prendere sul serio la parola “emancipazione”. Come scrive lui stesso: «non è forse, “emancipazione”, una delle poche parole moderne e illuministe che possiamo ancora pronunciare a voce alta, ora che si sono dissolti i miti del progresso?».
E non è forse da salutare come un miracolo editoriale chi riesca a scrivere un pamphlet che interroghi il presente politico, ordini larga parte della riflessione attuale sulla società e proponga infine una spiegazione del pastrocchio in cui s’è infilata la cultura dissidente dei nostri giorni? E quindi si metta al servizio di quell’opera emancipatrice che tiene a cuore la ricerca della verità e insieme quella della giustizia? Una tale impresa è riuscita all’ultimo saggio di Tamar Pitch, docente di sociologia del diritto e prolifica autrice di indagini sui rapporti fra questione criminale, giustizia penale e controllo sociale. Il titolo è già l’architettura del pensiero dell'autrice: “Il malinteso della vittima. Una lettura femminista della cultura punitiva”, appena uscito per le edizioni del Gruppo Abele.
Lo scenario iniziale è tratteggiato in pagine che si possono permettere d’essere svelte perché sono puntuali e documentatissime. Negli ultimi trent’anni ogni problema sociale e politico è precipitato in una richiesta corale di maggior giustizia penale, la depoliticizzazione di tutti i fenomeni e i conflitti del presente è accompagnata a una loro criminalizzazione sempre più estesa e la fantasia punitiva droga la realtà di una giustizia che è sempre più selettiva e sempre meno giustificata, dati sui reati alla mano. Insomma, «la legalità formale fa a pugni con la giustizia. Come siamo arrivati a questo punto?».
La risposta fino a un certo punto è repertorio classico della scuola italiana della sociologia del diritto figlia degli studi di Massimo Pavarini. Pitch inanella le torsioni prima statunitensi e poi europee del lemma “sicurezza”, che del côté novecentesco di sicurezza sociale (ossia di titolarità ed effettivo godimento di garanzie rispetto alla salute, alla vecchiaia, al lavoro, alla casa, e così via, assicurate in via di principio attraverso l’erogazione di risorse e servizi verso tutti e pagate da tutti con le tasse e le imposte) ha perso il pelo e il vizio nelle società disorientate e ansiogene di oggigiorno e si ritrova stretto sul lato alienante dell’immunità personale rispetto al rischio di essere vittime della criminalità di strada, o dell’inciviltà. Con la sostituzione, nel discorso pubblico, della sicurezza così intesa con l’ordine pubblico di un tempo si dislocano diversamente responsabilità e poteri: «Tematizzare la sicurezza come diritto dei cittadini piega la questione dell’ordine in senso “democratico”, ma al tempo stesso la privatizza, in due modi: per un verso, la demanda e consegna all’ambito della privacy di ciascuno, per un altro verso, fa di ciascuno il responsabile della propria sicurezza. Con due conseguenze politiche: l’individualizzazione dei rischi e la virtuale impossibilità di un dissenso. Perché, se l’ordine è pubblico, in quanto precisamente pubblico, la sua tematizzazione e concreta gestione sono e sono state suscettibili di discussione, dissenso, contestazione; chi viceversa può dissentire rispetto a qualcosa che è costruito come un diritto individuale, anzi un vero e proprio nuovo diritto di cittadinanza?».
Nonostante la chiarezza espositiva, la vasta bibliografia consultata e le esperienze culturali e politiche dell’autrice stessa nelle questioni che ruotano intorno alla sicurezza, non è ancora questa la miniera da cui estrarre il valore emancipatorio del suo lavoro. Che invece sta tutto nell’analisi dello slittamento dal paradigma dell’oppressione a quello della vittimizzazione. Se la sicurezza occupa l’intero orizzonte della sfera pubblica, a fare le spese di tanta semplificazione e individualizzazione siamo tutti noi, soggetti ora caratterizzati unicamente dall’essere colpevoli o vittime e quindi soggiogati da un’egemonia del linguaggio e della logica del penale anche quando tentiamo di opporci all’ingiustizia. Con le parole di Pitch: «Nel discorso pubblico, “vittima” comincia a sostituire altri termini, come per esempio “oppressi”, con il declino delle Grandi Narrazioni. Sul piano culturale, questa svolta produce la reintroduzione di attori in uno scenario fino allora caratterizzato piuttosto dall’imputazione di problemi, ingiustizie, e così via alla “struttura” della società, al “sistema”.
L’assunzione dello statuto di vittima diventa in breve tempo praticamente l’unico modo per far sentire la propria voice, e vittime o gruppi di vittime che, sulla base di questo statuto, chiedono riconoscimento politico e sociale, emergono anche in Italia. È evidente la differenza con il termine “oppressi”: quest’ultimo infatti richiama una situazione complessa che coinvolge l’intera biografia dell’individuo e lo accomuna ad altri individui nella stessa situazione, diciamo così, strutturale. “Vittima”, viceversa, evoca un’azione singola da parte di singoli, sulla base della quale ci si può associare ad altri individui che hanno subito, o potrebbero subire, la stessa azione ( vittime della mafia, del terrorismo etc.). In linea di principio questa associazione dura fin tanto che non si ottenga il riconoscimento del danno subito: in realtà, tuttavia, se e quando questo riconoscimento avviene, può accadere che l’associazione delle vittime di quel particolare torto alzi la posta o trovi una posta nuova. Se lo statuto di vittima diventa uno statuto ambito, ne deriva che vi sarà conflitto su chi sia la vittima più vittima, la vittima davvero meritevole».
Come un tale uso politico del potenziale simbolico del penale non risparmi né la politica delle identità o delle differenze, né alcuni tentativi di giustizia riparativa, né quei movimenti politici il cui obiettivo è la libertà dallo sfruttamento, dall’oppressione, dalla violenza dei gruppi di cui si fanno portavoce ( parte del femminismo compreso) è la conclusione poco confortante che il libro di Pitch consegna ai suoi lettori. Augurandosi neanche troppo fra le righe che si possa emergere e venire riconosciuti come attori di conflitto anche se non siamo innocenti assoluti come lo statuto di vittima reclama e se teniamo testa, come fa l’autrice, alle questioni di disuguaglianza e di potere politico, economico e sociale.