Non conta la storia, ma come la racconti. Vale per il cinema e vale anche per la letteratura, secondo Bret Easton Ellis.

Lo scrittore di Los Angeles, un fulgido passato da enfant prodige con il suo Meno di zero ( la versione aggiornata agli anni Ottanta del Giovane Holden) un presente complicato e poco politicamente corretto, si è presentato al Festival del Cinema di Roma nella veste che forse più lo mette a suo agio: quella di amante del cinema. Di più, di fan: di quelli puntigliosi che conoscono a memoria non solo gli attori e il regista del film di cui parlano, ma anche il tecnico della fotografia e quello del suono. E lui, delle sette pellicole che sceglie per descrivere gli anni Settanta - Novecento; Il lungo addio; Shampoo; L’ultimo spettacolo; Carrie; Incontri ravvicinati del terzo tipo e Manhattan - conosce ogni dettaglio.

Proprio da questa attenzione al dettaglio nasce suo ultimo libro, White ( Bianco, edito da Einaudi), che non è un saggio e non è un’autobiografia ma è un po’ entrambe: Ellis scrittore non sarebbe esistito, come nemmeno sarebbero stati scritti Meno di zero, Le regole dell’attrazione e American psycho, se da ragazzino senza genitori oppressivi non avesse potuto chiudersi anche più volte alla settimana nella sala buia di un cinema. Né se quello stesso ragazzino non avesse potuto rimanere sveglio fino a notte fonda a guardare Channel Z, una rete locale della Los Angeles degli anni Settanta e Ottanta che trasmetteva i film, prime visioni e pellicole datate, esattamente come in Italia continua a fare Bellissimi di Rete 4. Su blockbuster e b- movies, Bret Easton Ellis ha affinato il suo gusto per le scene, per i dialoghi, per i movimenti di macchina e soprattutto per i generi: noir, melò, horror, commedie sofisticate.

Tutto questo era la New Hollywood ( la corrente cinematografica di Robert Altman, Woody Allen, Steven Spielberg, Peter Bogdanovich e Brian de Palma) e tutto questo è finito nella memoria visiva del giovane Bret, che vedendo per la prima tvolta Manhattan, nel 1979, decise che si sarebbe trasferito nella costa est per fare ciò che già sapeva sarebbe stato il suo mestiere: scrivere. Si sono dette e scritte molte cose su Ellis: la critica americana ha accolto tiepidamente il suo White, così come aveva bocciato Imperial Bedroom ( il sequel di Meno di zero, che racconta la vita adulta degli adolescenti perduti) come il suo canto del cigno. Eppure, nel suo primo prodotto di non- fiction l’autore ha messo lo sforzo di concentrare tutto il suo mondo e l’esito è un distillato di cultura pop e critica sociale. Il focus, però, rimane sempre lo stesso: Bret Easton Ellis, il suo ego e la sua percezione del mondo, che è tanto un clichè quanto una perfetta fotografia della società del consumo di oggi.

Nel libro Ellis ripercorre gli anni giovanili spesi a guardare film e imparare il lessico narrativo che è così proprio della letteratura americana, innamorandosi soprattutto dell’horror, in cui «A volte vinci, a volte perdi, non c’è sempre un lieto fine». Questo spunto biografico è una leva per affrontare il presente, in cui nessun tredicenne verrebbe lasciato da solo davanti a una pellicola in cui a Carrie viene versato addosso un secchio di sangue di maiale durante il ballo scolastico e lei uccide con la telecinesi la sua intera classe di liceo, poi incendia la scuola.

Per questo, secondo Ellis, i Millennials, la generazione nata tra il 1981 e il 1996, è profondamente debole e, peggio, noiosa: cresciuti con i genitori apprensivi fino allo spasmo, che li hanno protetti da tutto ripetendo loro quanto sono speciali e che sin da piccoli gli hanno chiesto “cosa vuoi fare?”, sono una generazione profondamente insicura e non attrezzata a reagire alle difficoltà. Per questo riversano così tante aspettative sui social: un luogo che li rispecchia perché è protetto dal politicamente corretto, in cui si sentono in diritto di avere sempre incrollabilmente ragione.

Che il suo ego sia il punto di partenza e di arrivo di ogni riflessione è il tratto distintivo di uno scrittore cresciuto nell’edonismo degli anni Ottanta, e quarant’anni dopo il suo occhio diventa un punto di osservazione inedito su un presente – editoriale ma soprattutto cinematografico – che non capisce. Dichiaratamente omosessuale ( e convivente con un Millennial), Ellis è entrato pesantemente in contrasto sia via social che attraverso i suoi editoriali su riviste americane con quello che lui chiama «nuovo fascismo gay». Ovvero la visione mainstream del mondo Lgbt, dove esiste «' l'elfo gay', figura magica e mansueta che non contraddice, non fa domande complicate, non viola gli ordini di scuderia, si presenta come vittima, brandisce valori liberal, vota diligentemente a sinistra, non si azzarda a prendere in considerazione ciò che viene dal mondo conservatore, specialmente da quello di impronta cristiana, e si commuove guardando Moonlight» . Un fenomeno, quello del mainstream culturale del politicamente corretto, che per Ellis permea tutta la società, in cui regna «una specie di totalitarismo che detesta la libertà di parola e punisce le persone se rivelano il loro vero io». E al Millennium che obietta mostrando la sua pagina Instagram piena di selfie, Ellis risponde che, in realtà, quella di oggi una generazione di attori su palchi digitali, in cui l’unico mantra non è mettere davanti il proprio io, ma fare tutto ciò che è necessario per «essere accettati, seguendo un codice morale positivo secondo cui tutto deve piacere e ogni voce deve essere rispettate e chiunque abbia opinioni negative o impopolari che non siano inclusive sia escluso dalla conversazione e umiliato spietatamente».

Secondo Ellis, proprio questo meccanismo di supposta superiorità morale è stato alla base della vittoria di Donald Trump ( che è anche il modello del suo personaggio forse più famoso, Patrick Bateman, l’assassino di American psycho) alle presidenziali, che lui descrive come il Jocker del Cavaliere oscuro.

Durante la campagna elettorale, i media hanno descritto la società americana come divisa in due: gli assolutamente buoni contro Trump, gli assolutamente cattivi a favore. In quel 2016, l tycoon non è stato combattuto con le armi dell’intelligenza ma con quelle della superiorità morale, inutile davanti a un genio del politicamente scorretto. Ma la maggiore incomprensione, che ha poi lasciato le elites dell’estabishment piene di «sgomento e autovittimizzazione», è stata che la società americana sia arrivata a una distanza tale tra realtà e finzione che le milioni di persone che hanno votato per Trump non lo ammettono per ipocrisia, sostenuta dai media mainstream.

Eppure, dietro la ruvidezza dei suoi toni e l’assolutismo dei suoi argomenti, Bret Easton Ellis mostra con White soprattutto di essere rimasto quel ragazzino che passava i pomeriggi al cinema. Con il citazionismo delle trame di film secondari ma centrali per la sua crescita artistica, come I giorni del cielo( nel periodo in cui era ossessionato da Richard Gere), l’autore dà precisa dimensione di ciò che, in fondo, è il racconto che lo appassiona di più: la magia del silver screen, da cui imparare la realtà.