PHOTO
Una cosa giusta, il ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca guidato da Stefania Giannini, potrebbe fare: pubblicare in estratto, e diffondere nelle scuole e tra gli insegnanti, il testo del discorso pronunciato da Piero Calamandrei (morto giusto sessant'anni fa, a Firenze), nel Salone degli Affreschi della Società Umanitaria il 26 gennaio del 1955. Quel discorso inaugura un ciclo di conferenze sulla Costituzione italiana, organizzato da un gruppo di studenti universitari e medi.Quel discorso, non a caso conosciuto come "Discorso ai giovani sulla Costituzione" se non tutto dice molto di Calamandrei; quando lo pronuncia è un giurista, professore universitario affermato; membro della Consulta nazionale, eletto nel 1946 all'Assemblea Costituente; ha già fondato e dirige il mensile "Il Ponte", principale palestra dell'azionismo italiano; è il convinto, intransigente, radicale, custode dello Stato di diritto impegnato nel contrastare, nelle aule di giustizia e con i suoi scritti le tentazioni revansciste e autoritarie di quegli anni dove molto del fascismo resiste nelle menti di chi è stato lesto a voltare la "gabbana" e riciclarsi. E' un'esponente di spicco di quell'Italia di "minoranza", laica, liberale, radicale, che si esprime dalle colonne del "Mondo", su "Il Ponte, "Lo Stato Moderno", "Tempo Presente", "Italia Libera".Negli anni della dittatura fascista, troviamo Calamandrei collaborare con il gruppo che a Firenze anima il "Non mollare", con Gaetano Salvemini, i fratelli Carlo e Nello Rosselli, Ernesto Rossi. Durante il ventennio, fedele all'adesione al "Manifesto degli intellettuali antifascisti" di Benedetto Croce (è la risposta al "Manifesto degli intellettuali fascisti" di Giovanni Gentile), è uno dei pochissimi professori e avvocati che non chiede la tessera del partito fascista. Quando però, nel 1931, il regime impone ai professori universitari il giuramento di fedeltà sono solo in tredici a dire di NO (per questo sono immediatamente cacciati dalle loro cattedre, e pèrdono la pensione). La maggioranza dei 1200 accademici giura. Quelli di sinistra accolgono il "consiglio" di Togliatti: giurare, e mantenendo la cattedra "poter svolgere un'opera estremamente utile per il partito e per la causa dell'antifascismo". Anche Croce, punto di riferimento dell'antifascismo liberale, incoraggia professori come Guido Calogero e Luigi Einaudi a restare all'università: "per continuare il filo dell'insegnamento secondo l'idea di libertà". Così giurano anche accademici di specchiata fede antifascista: i Guido De Ruggiero e gli Adolfo Omodeo; i Federico Chabod e i Giuseppe Lombardo Radice; i Gioele Solari e gli Arturo Carlo Jemolo; e anche Calamandrei: persuasi che la battaglia antifascista vada condotta dall'interno.Calamandrei giura perché considera l'insegnamento "il suo posto di combattimento"; una sottomissione, dirà, che gli strazia l'animo. E' sincero. Di quello "strazio" dà testimonianza uno dei suoi più attenti biografi, quell'Alessandro Galante Garrone che gli dedica pagine intense ne "I miei maggiori" (Garzanti, 1984), e nel successivo "Calamandrei" (Garzanti, 1987): "Fu per lui una cocente umiliazione, dalla quale si sarebbe risollevato con l'opera dignitosa e coraggiosa di tutti i giorni, senza risparmio di energie. E' un fatto che sempre di più, dalla fine del 1931 in poi, egli volle e seppe fare della sua cattedra un posto di combattimento?".Può dirci ancora qualcosa, Calamandrei, figlio di quell'Italia cui tanto dobbiamo, di cui si è scolorata la memoria, e che fa parte di quell'Italia di "minoranza" i cui valori, vincenti, sono tuttavia misconosciuti? Sì, naturalmente. Afferriamo dalla libreria "L'elogio dei giudici scritto da un avvocato", opera scritta in prima edizione nel 1935, e man mano aggiornata, fino al 1955