Il carro che porta i Cenci al patibolo si fa largo tra grappoli di folla; e grida, singhiozzi, ululati provengono dai marciapiedi, dalle carrozze, dai balconi dei palazzi, in un misto di compassione e ferocia, di eccitazione e paura, nobiltà e popolino a formare un unico, delirante branco.

E mentre la processione attraversa Santa Maria di Monserrato, i Banchi, Tordinona, e si avvicina al luogo dell’esecuzione l’aria è satura di calore: quell’ 11 settembre 1599 a Roma fa un caldo torrido, l’estate sembra non voler finire più.

C’è un momento però in cui la schiera si azzittisce, un istante sospeso, quasi a raccogliere pensieri e spiriti animali prima del supplizio: la figura sdegnosa di Beatrice appare sul ciglio di San Celso, neanche uno sguardo rivolto agli astanti, gli occhi dritti su ponte S. Angelo dove di lì a poco verrà decollata, ceppo e mannaia, l’ombra del boia già occhieggia sinistra sul palco.

Sul carro, dietro di lei, la matrigna Lucrezia Petroni tremante e inebetita, e il corpo già afflitto ma ancora in vita del fratello Giacomo: durante il tragitto lo hanno maz- zolato sul cranio, divelto con tenaglie roventi, alla fine morirà per squartamento nel più brutale dei martirii. Lucrezia non sopporta la scena e perde i sensi, Beatrice, che è già il suo fantasma, rimane muta e altera. Al fratello Bernardo, che ha appena 15 anni, viene risparmiato il patibolo ma non lo strazio di assistere alla morte dei suoi cari, anche lui perde i sensi per l’orrore e rimane svenuto per mezz’ora. La prima testa a cadere è quella di Lucrezia, tagliata di netto dallo spadone del boia. Poi tocca a Beatrice, la star, ha 22 anni, ed è di una bellezza rara.

Le cronache raccontano di una preghiera sussurrata, di un bacio lieve al crocifisso e, anche qui, di un istante di esitazione da parte del carnefice prima che le vibrasse il colpo fatale: «Intimorito si trovò impacciato a vibrarle la mannaia. Un grido universale lo imprecava, ma frattanto il capo della vergine fu mostrato staccato dal busto, ed il corpo s’agitò con violenza. La testa di Beatrice fu involta in un velo come quella della matrigna, e posta in lato del palco; il corpo nel calarlo cadde in terra con gran colpo, perché si sciolse dalla corda». In piazza quel giorno c’erano migliaia di persone, tra di loro anche un giovane pittore lombardo, Michelangelo Merisi, in arte Caravaggio. In dodici persero la vita, chi per insolazione, chi schiacciato nella calca, chi affogato nel Tevere. Una cupa giornata di morte e di delirio, quell’ 11 settembre 1599.

Erano stati condannati alla pena capitale direttamente da Papa Clemente VIII per l’uccisione del conte Francesco Cenci, padre di Beatrice, Giacomo e Bernardo e marito di Lucrezia, sua seconda moglie. Un delitto premeditato per porre fine alle violenze di quell’uomo malvagio di cui tutti dicevano un gran male.

Francesco Cenci, ultimo esponente di una nobile e influente casata che acquistò i titoli del medioevo, era arrogante, brutale e perverso, coinvolto in risse e diversi fatti di sangue, finito più volte a processo per violenze sessuali e pedofilia ( aveva violentato il figlio 12enne di un popolano) era sempre riuscito a comprarsi un’assoluzione, sfruttando la sua posizione e le sue ricchezze. Ma era con le donne della sua famiglia che riusciva a esprimere al meglio la sua crudeltà. La figlia maggiore Antonina scrive addirittura a Clemente VIII per sfuggire agli abusi paterni, il pontefice, che non aveva alcuna simpatia per Francesco, accoglie la richiesta combinandole un matrimonio con un nobiluomo di Gubbio. Costretto a pagare una ricca dote si sfoga su Beatrice che fa segregare assieme a Lucrezia in un castello in provincia di Rieti che appartiene alla famiglia Colonna, nel territorio del Regno di Napoli. È il 1595 e, fino alla morte avvenuta nel 1598, il castello sarà teatro di sevizie e percosse, di continue umiliazioni, accentuati dall’animo sempre più incarognito di Francesco, malato di gotta e di rogna e assediato dai debiti e dai creditori. Con l’aiuto dei domestici Olimpio Calvetti e Marzio da Fioran, Lucrezia, Beatrice e Giacomo tentano di ucciderlo per ben tre volte, provando ad avve- lenarlo, tentando di pagare dei briganti locali, stordendolo con l’oppio. Alla fine è Olimpio a ucciderlo nel sonno, a colpi di martello e a chiodate. Ufficialmente Francesco Cenci è morto per una brutta caduta da una balaustra, ma la messa in scena è goffa, amatoriale. Fanno ritrovare il corpo in un orto ai piedi del castello. Non ci vuole molto agli investigatori mandati sia dal viceré del Regno di Napoli che dal Vaticano per capire che quello non era un incidente, ma un delitto. Riesumano il cadavere, trovano i segni delle martellate sul cranio e alcuni buchi nel collo, due chirurghi certificano l’omicidio.

Il movente è limpido: tutti sapevano delle brutalità del conte nei confronti dei familiari che avevano più di una buona ragione per liberarsi di lui.

I Cenci vengono portati a Roma, in un primo momento ai domiciliari nel loro palazzo sotto la sorvegianza delle guardie pontificie. Si dichiarano innocenti, sono una famiglia molto in vista, dei “vip” e il loro processo, che oggi verrebbe definito uno show mediatico, calamita l’attenzione morbosa dell’opinione pubblica ed è condotto dai più noti giuristi dell’epoca. Il dibattimento vede affrontarsi infatti due autentici principi del foro, Pompeo Molella per la pubblica accusa e Prospero Farinacci per la difesa, il giudice è Ulisse Moscato che due secoli più tardi il francese Stendhal ( grande appassionato della tragedia dei Cenci) descrive nelle sue Cronache Romane come «uomo dalla profonda sapienza e dalla superiore sagacità dell’intelletto». Ma Clemente VIII, lo stesso che l’anno successivo farà ardere vivo Giordano Bruno, non può accettare una sentenza che non si concluda con la morte per gli accusati. L’avidità, la cupidigia untuosa di Papa Aldobrandini, beneficiario naturale della confisca dei beni dei Cenci, rende il processo una farsa, fosse stato per lui non ci sarebbe stato nessun processo, li avrebbe fatti squartare tutti appena arrivati a Roma. Irritato dalla ragionevolezza e dalla moderazione di Moscato e preoccupato che possa venire colpito dalla grazia della giovane, lo fa sostituire dal giudice Cesare Luciani, noto per la facilità con cui spedisce gli imputati dal boia fin dai cupi tempi di Sisto V, soprannominato “il Papa della delazione e delle forche”.

Ma soprattutto c’è Beatrice, superba e altezzosa, che rifiuta di ammettere le violenze e gli stupri del padre, un po’ per scongiurare il movente, un po’ per orgoglio e vergogna. A nulla servono le suppliche del suo avvocato, che la invita ad ammettere l’omicidio ma anche a elencare tutti gli abusi subiti da quell’orrendo genitore, abusi che potranno servire da altrettante attenuanti e a risparmiarle la vita. Niente da fare, lei rigetta con sdegno ogni accusa. Molella porta in aula a testimoniare il domestico Marzio che alla vigilia aveva confessato sotto tortura, ma alla vista di Beatrice, di cui era perdutamente innamorato, scoppia a piangere e ritratta tutto. Viene ucciso qualche giorno dopo a colpi di mazza dagli aguzzini del Papa. Olimpio, l’altro domestico che aveva partecipato alla congiura era invece riuscito a darsi alla macchia prima degli arresti, ma viene ritrovato da un simpatizzante dei Cenci che lo ammazza per impedirgli di testimoniare.

La sentenza di condanna a morte è scontata, tanto che viene emessa in assenza di Farinacci, ancor prima che possa pronunciare l’arringa difensiva. Soltanto al piccolo Bernardo è risparmiato il supplizio, lo condannano ai “remi perpeutui” nelle galere delle Stato Pontificio ( comprerà la sua libertà qualche anno dopo pagando un’ingente somma). Immediatamente i Cenci sono portati in prigione, Lucrezia e Beatrice rinchie nella Corte Savella, Giacomo e Bernardo nel carcere di Tordinona, prima dell’esecuzione ci sarà la tortura. Clemente VIII vuole infatti che i Cenci confessino e vuole eliminarli prima che la pietà possa far breccia nei sentimenti del popolo, incuriosito e appassionato da quella tragica vicenda. Confesseranno tutti, l’ultima a piegarsi è proprio Beatrice, sottoposta al trattamento della “corda” che consiste nel sollevare il corpo tramite una carrucola mentre delle grosse funi ti spezzano giunture e articolazioni. Si piega per il dolore fisico, insopportabile, ma anche perché capisce che tutto è ormai perduto, che i suoi familiari hanno confessato, che niente e nessuno potrà salvarla dallo spadone affilato del boia.

Il suo processo e la sua esecuzione, il barbaro squartamento del fratello Giacomo, simbolo di una giustizia vendicativa e ancella del potere, ha colpito a fondo l’immaginario collettivo del popolo e degli artisti e intellettuali. E nei secoli ha ricevuto il tributo di scrittori come Stendhal, Shelley, Dumas, Artaud, Moravia, di pittori come Caravaggio, Artemisia Gentileschi ( anche lei in piazza il giorno della morte), Guido Reni, di muscisti come Rota e Goldschmidt, di cineasti come Mario Camerini e Lucio Fulci.

La leggenda vuole che ogni 11 settembre, annunciato da una gelida brezza, il fantasma di Beatrice Cenci appaia all’imbrunire sui balconi di Castel S. Angelo. La testa appoggiata sulle mani bianche come la luna, la camminata leggera e altezzosa, una luce malinconica nello sguardo, e un sorriso beffardo da regalare ai romani, proprio come quando era in vita.