Si contano almeno due verità in questi giorni sulle assi del Teatro di Roma. La prima è che Giancarlo Sepe, fondatore e anima della Comunità, il più resistente teatro d’avanguardia della Capitale, attivo dal 1972, è un titano della scena. La seconda è che, se ridurre per il palco una narrazione complessa, ricca di avventure e giravolte come il romanzo Le memorie di Barry Lyndon di William Makepeace Thackeray, è un’operazione sdrucciolevole, pensare di “prendere le emozioni” del film di Stanley Kubrik e portarle in scena è un’impresa irrealizzabile. Lo sforzo prometeico di Sepe, così spesso capace di donare il fuoco agli uominispettatori, diventa qui simile ai sogni di Barry Lyndon: belli lo stesso, anche se destinati a infrangersi.

La storia di Thackeray è ambientata nel Settecento e vede un giovane proveniente dalla campagna irlandese, Redmond Barry, raccontare in prima persona le peripezie della sua esistenza, la sua spinta vitale che gli permette d’immergersi nel mondo dell’aristocrazia inglese. Il suo percorso è segnato da ambizioni e da passioni. Almeno tre figure femmini- li importanti deviano la linea della sua vita: sua madre, sua cugina Nora, di cui si innamora, ma che gli preferirà il capitano inglese Quin, e Lady Lyndon, che Redmond sposerà diventando Barry Lyndon.

Diserzioni, duelli, viaggi, azzardi, guerre in giro per l’Europa, morti, tra cui quella del figlio Bryan, sono solo alcuni degli elementi che schiaffeggiano il destino del protagonista.

La sua caduta è inevitabile.

È evidente che a teatro una trama tanto articolata, per quanto ridotta ai suoi nuclei essenziali, richiederebbe un antico proagone, quel momento che, nell’età classica, precedeva le rappresentazioni e forniva al pubblico informazioni sulle opere in scena nei giorni successivi. L’intreccio non è adatto, non con i mezzi e i tempi della nostra epoca teatrale, al metodo, alle costruzioni di immagini, in fondo alla natura stessa della Comunità, che con messaggi più netti e narrazioni più lineari è stata capace di scavare i testi ben più in profondità del teatro di parola. Avverrà quindi, con questo Barry Lyndon, che solo chi avrà l’indulgenza di dare per buono il proagone, la cura di studiare in anticipo o – con più semplicità, forse più saggezza – di rinunciare alla storia, a inseguire la drammaturgia della parola, potrà apprezzare le grandezze dell’allestimento di Sepe, la sua demiurgia della meraviglia. Si entrerà allora nella gioia festosa di una messa in scena che fa di Barry Lyndon un’anima attraversata di presenze, memorie, sogni. La forza mnemonica del protagonista, con la misura e il vigore di Mauro Brentel Bernardi, invade lo spazio con personaggi, ricordi, stelle, tra tutte quella di Nora: l’astro con raffigurato il suo volto si accende di tanto in tanto, orma di chi segna per sempre un destino. Nora è Federica Stefanelli – interprete indimenticabile di un indimenticabile Washington Square alla Comunità –, ore e ore di studio corporeo prorompono in meccanismi scientifici che si offrono come simbolo: del gioco dei legami amorosi, dell’iterazione di un dovere coniugale rappresentata dall’ossessivo e grottesco ripetersi di una marcia nuziale.

Questa stessa perfezione del gesto è in Sonia Bertin, qui Lischen, la donna che accudisce Barry dopo uno dei suoi scontri. Queste attrici, così come altri attori della Comunità, potrebbero cadere nella trappola di una tecnica esasperata, ma non si abbandonano al virtuosismo, non sono “brave senz’anima”, perché riescono – qui è la magia del lavoro di Sepe con i suoi interpreti – a trasferire le emozioni nella tensione di una nevrilità poetica, a soffondere di anima il corpo e il movimento. Così il palcoscenico divampa di ritmo, quando gli attori si chiudono in una danza circolare ricca di richiami culturali e allegorici, o quando creano un impressionante campo di battaglia, ognuno nascosto dietro una sagoma di soldato, quando giocano con le ombre. Queste immagini emergono da un’atmosfera notturna, tagliata da luci che restituiscono colori irreali e climi onirici. Le musiche, in parte riprese dal film in un richiamo non sempre proficuo, sostengono i quadri scenici, e i canti a cappella sono vere e proprie esplosioni rituali di tensioni emotive.

Lo spettacolo vede la partecipazione di Pino Tufillaro, capitano di lungo corso delle nostre scene. La sua interpretazione dello zio di Barry – il Cavaliere di Balibari, baro sempre in fuga, figura nodale nella vicenda del protagonista – gode probabilmente della sintesi più naturale e armonica di corpo e parola. Tufillaro dosa con cura il necessario grottesco e contribuisce in più momenti alla creazione di equilibrio scenico.

Il titanismo di Giancarlo Sepe appare evidente anche dall’intelligenza, dalla capacità autocritica con cui è riuscito a trasformare un allestimento che, al suo debutto al Napoli Teatro Festival, sembrava nato davvero sotto una pessima stella in un lavoro di grande allegria scenica, destinato senza dubbio a crescere strada facendo. La felicissima intuizione del Teatro di Roma di accogliere nel suo tempio più importante La Comunità deve essere l’inizio di un percorso condiviso e fiorente.

Il fascino del personaggio di Barry Lyndon, anche qui sul palco, non attiene alla morale. Se qualche insegnamento etico vuole esserci, ammesso che ci sia, non è di alcun interesse e certamente non va ricercato in senso didascalico. La sua caduta, raccontata con energia in un finale necessariamente sincopato, la massima conclusiva presa dal film – secondo cui buoni o cattivi, ricchi o poveri sono tutti morti – sono piuttosto un invito ad ammirare il vitalismo di Barry. Redmond era un uomo in controtempo, e per questo tanto più attraente, i suoi duelli, un’immagine anch’essa moltiplicata sulla scena, sembrano richiamare le sfide che ognuno quotidianamente affronta.

Sono le sfide dei sogni, avidi, come mette in guardia il regista citando Yeats, di senso di responsabilità, ma anche così vivi nell’incoscienza seducente di Barry Lyndon.