DAL PROCESSO PER LA MORTE DI GIORGIANA MASI AGLI INSULTI ( POSTUMI) DI LUIGI DI MAIO

Con l’inchiesta Giorgiana Masi. Indagine su un mistero italiano ( Feltrinelli, pp. 225, euro 18,00) l’autore, il giornalista Concetto Vecchio, non solo ha scritto un bel libro, che si legge tutto d’un fiato come un romanzo, ma è riuscito a compiere un autentico viaggio nella memoria della nostra storia pubblica. Il libro è davvero un riuscito tentativo di far parlare i fatto di quel tragico 12 maggio ’ 77 a Roma, quando Giorgiana Masi, una ragazza di 18 anni – che si era recata al banchetto per firmare i referendum radicali nella ricorrenza della vittoria sul divorzio – sta fuggendo da una carica delle forze dell’ordine e muore colpita da uno sparo. Uno dei tanti misteri irrisolti italiani degli anni di piombo. Quello di Concetto Vecchio – 46enne cronista politico di Repubblica – è un tentativo emotivamente partecipato di ricostruire i fatti, pur nella consapevolezza che a un certo punto «le domande sopravanzano le risposte».

Ma non è dell’indagine e del mistero che vogliamo scrivere quanto della sottolineatura in buona parte del libro del ruolo svolto dall’avvocato difensore della parte civile, Luca Boneschi ( vittima inconsapevole 40 anni dopo delle contumelie del grillino Luigi Di Maio che lo ha accusato di approfittare di un vitalizio malgrado Boneschi sia scomparso nel 2016), che l’autore ha conosciuto e intervistato. Tanto che pagine a lui dedicate appaiono anche come una sorta di risarcimento postumo alla memoria e all’azione di un avvocato coraggioso e pronto ad andare fino in fondo alle sue battaglie.

Quando accetta l’incarico, nel febbraio ’ 78, Boneschi ha 39 anni, cresciuto in una famiglia della borghesia di Milano, di solidi sentimenti repubblicani. Il nonno è magistrato, lo zio membro della Costituente per il Partito d’Azione e, insieme al padre di Luca, Aldo, ha aperto uno studio legale in via Cesare Battisti. Lo zio scrive sul Mondo, e nel ’ 56 Luca comincia anche lui a frequentare la sede radicale di via Brera, dove incrocia Scalfari e fa amicizia con Pannella, Carandini, Rodotà e con Lorenzo Strik Lievers. Alla vigilia delle elezioni politiche del ’ 63 scrive anche un opuscolo, Il voto radicale, intervistando Eco, Pasolini, Sciascia, Roversi. Nel ’ 68 fornisce assistenza legale ai contestatori del movimento studentesco. Costituisce, insieme a Marco Janni, Francesco Fenghi, Luigi Mariani, Francesco Piscopo, Gilberto Vitali e altri colleghi il Comitato di difesa e lotta contro la repressione. Nel momento in cui è impegnato da quattro anni davanti alla Corte d’Assise di Catanzaro nel processo per la strage di piazza Fontana, giunge la chiamata per as- sumere la parte civile della famiglia Masi. Boneschi aveva trascorso gli ultimi anni a cercare l’assassino di Roberto Franceschi, uno studente ventunenne ucciso a Milano nel luglio del ’ 73. «Una vicenda oscura – spiega Vecchio – che ha molte analogie con la morte di Giorgiana. Furono entrambi colpiti alle spalle mentre cercavano riparo da una carica. Accetta senza pretendere compenso».

Sapendo questo, nel gennaio 2014 Concetto Vecchio prende un treno da Roma e va a Milano a trovare Boneschi, il quale aveva conservato tutte le carte della vicenda Masi ( «le terrò finché non sbiadiranno» ). Il giornalista si chiude nel suo studio per due giorni: «Di tanto in tanto Boneschi faceva capolino nella stanza, e con educata pazienza spiegava dei passaggi, segnalava delle incongruenze, s’accendeva di ricordi. Aveva un’aria malinconica, un certo distacco dalle cose, l’eleganza del gran borghese lombardo che maschera la sua inquietudine: Giorgiana Masi era stata, insieme a piazza Fontana, la battaglia della sua vita, e l’aveva persa».

Vale la pensa rileggere alcune delle considerazioni espresse dall’avvocato. «Scopo della difesa di parte civile, detta anche accusa privata, è quello – spiegava Boneschi – di provare la colpevolezza dell’imputato. Nel nostro caso, di trovare l’imputato, ma non ai fini di farlo condannare, che è compito della pubblica accusa, bensì di ottenere il risarcimento del danno subito. Nel caso di Giorgiana partivamo da zero, era un’impresa disperata. Ma se il tribunale avesse accertato che a sparare e a uccidere erano state le forze dell’ordine, pur senza individuare il singolo poliziotto che aveva sparato, avremmo potuto chiedere al ministero competente il risarcimento del danno. L’ 8 maggio 1981 il giudice istruttore deposita la sentenza sull’omicidio di Giorgiana Masi in cui si dichiara di «non doversi procedere per essere rimasti ignoti gli autori dei reati». «La sera del 9 maggio ’ 81 – racconta Vecchio – Boneschi viene contattato da Radio Radicale, a cui rilascia parole piene di delusione. Non intende criticare il giudice, ma la mancata collaborazione delle forze di polizia con la magistratura. Sostiene che l’esito dell’inchiesta avrebbe potuto essere diverso, riba- dendo il fatto che Giorgiana e due feriti ( Ascione e Lacanale), erano stati colpiti alle spalle, mentre scappavano da una carica della polizia che avanzava sul ponte Garibaldi». Il partito trasforma le parole di Boneschi in un comunicato stampa, che sarà riportato in parte dal Messaggero nell’edizione del 10 maggio ’ 81.

Il giudice istruttore della sentenza, Claudio D’Angelo, impegnato sul fronte del terrorismo dal ’ 76, si preoccupa per quelle parole. I brigatisti lo accusano di proteggere le forze dell’ordine: «Una voce anonima gli annuncia che la pallottola che ha ucciso Giorgiana Masi sarebbe finita sulla sua schiena. È preoccupato. Decide di querelare l’avvocato Boneschi e il direttore del Messaggero, Vittorio Emiliani». E così, nell’estate ’ 81, mentre l’inchiesta su Giorgiana viene archiviata a finire sul banco degli accusati è l’avvocato. Deve presentarsi davanti al tribunale di Perugia per avere offeso la reputazione di un giudice.

Il 12 maggio ’ 82, colpo di scena, Boneschi – che, candidato nel ’ 79, era primo dei non eletti alla Camera – entra in Parlamentodopo le dimissioni del collega Marcello Crivellini. Ma, caso forse unico nelle nostre cronache parlamentari, presenta immediatamente le dimissioni. «Per orgoglio civile, non vuole affrontare – scrive Vecchio – il giudizio con lo scudo dell’immunità, intende difendersi non dal processo ma nel processo». L’unico quotidiano che gli dedica un commento è Il Giornale d’Italia, un piccolo quotidiano di destra. Scrive il direttore, Luigi D’Amato: «Boneschi ha rifiutato la proclamazione a deputato, motivando il suo no, già di per sé quasi incredibile in un’Italia dove la corsa al potere è uno sport molto affollato». Boneschi inizia allora un processo nel processo: il suo. Durerà anni. Tra amnistia, appendice civile, richiesta di risarcimento danni, verdetti altalenanti, assoluzioni, ricorsi, si arriva al 6 maggio 2008. «Vent’anni dall’inizio della causa civile, oltre 30 da quando avevo assunto la difesa della famiglia Masi, 7- 8 gradi di giudizio per una frase in un articolo. Avevo iniziato a occuparmi del caso che avevo meno di 40 anni, e ora ne avevo quasi 70. Non ne potevo più. I miei colleghi m’invitarono a impugnare la sentenza, ma non volevo morire con questo conto aperto. Accettai la decisione. Mi accollai la condanna, 35mila euro».

Così spiega la sua “resa” finale: «Avevo fatto uno sbaglio, ero stato disattento nella comunicazione con Radio Radicale… Il commento era pesante, lo feci d’impulso, per telefono, pieno d’ira. Mai avrei pensato che quelle valutazioni approssimative sarebbero state trasformate in una dichiarazione virgolettata ripresa dal Messaggero ». Sullo sfondo, la sua idea fissa: «Sperai che la causa civile fosse l’occasione per riaprire l’inchiesta». Boneschi pensava che la sua condanna avrebbe potuto provocare un “caso politico” di fronte al fatto che davanti a un mistero italiano l’unico paradossalmente a pagare fosse stato lui, l’avvocato della famiglia della vittima.