Cinquant’anni fa usciva Hey Joe il primo singolo di James Marshall Hendrix noto a tutti come Jimi. Lo dico subito: per chi scrive Hendrix è Dio. Quando mi chiedono: «Beatles o Rolling Stones? », rispondo sempre senza esitazione: «Hendrix». Nel senso che considero che tra Beatles, Rolling Stones e Hendrix ci sia la stessa relazione che intercorre tra San Giovanni Battista e nostro Signore Gesù Cristo.

Eppure il mondo si divide in chi lo adora quanto e più di me e quelli che lo ritengono la causa di tutti i mali che affliggono la musica. La cosa singolare della questione è che hanno ragione tutt’e due le fazioni, ed è quindi molto delicato trattare questo argomento.

Bene, allora butto là la mia: non mi interessa come suona la chitarra, penso che la sua grandezza stia solo incidentalmente nel fatto di essere stato un chitarrista. Sono convinto che se avesse suonato il citofono, avrebbe comunque cambiato la storia, perché la sua peculiarità risiede nel modo in cui pensava la musica. Non amo i lunghi assoli, non mi colpisce il fatto che mimi atti sessuali sul palco, non penso che la sua originalità risieda nell’averne incendiato una chitarra sulla scena, tra l’altro è comunemente accettato sulla base di molteplici testimonianze, che quella cosa che mastica a Monterey non sia propriamente un chewing gum. Per cui sì: bello bruciare una chitarra, ma la sua importanza è altrove perché Hendrix è il David Griffith della musica. I fratelli Lumière inventano il cinematografo.

Meliés, un prestigiatore, è il primo che ne coglie la valenza narrativa del nuovo linguaggio, la possibilità di raccontare delle storie e crea i primi “effetti speciali”: spegnendo e riaccendendo la macchina da presa fa sparire e o riapparire oggetti e persone, ma sostanzialmente tiene la macchina nella posizione di un ipotetico spettatore a una rappresentazione teatrale. Ecco, quando Hendrix entra in studio per la prima volta, per quanto riguarda le registrazioni fonografiche si usavano vari espedienti per creare artifizi sonori. Karajan e Gould già hanno scandalizzato la critica assemblando varie take ( frammenti di registrazioni) per unica composizione, ma appunto stiamo al livello di Meliés.

Il primo disco di Hendrix Are you experienced rappresenta per la musica l’equivalente di ciò che è stato Nascita di una nazione per la storia del cinema: la macchina da presa cambia posizione, il montaggio diventa parte integrante, se non il cuore, della narrazione. L’incontro con il tecnico di studio Eddie Kramer è, per quanto breve, uno di quei sodalizi che cambiano la storia del mondo. Quando si incontrano Eddie è ventiquattrenne con già all’attivo varie produzioni musicali di altissimo livello ( va da sé che in questo momento in Italia se incontri un ventiquattrenne in un serio studio di registrazione che si occupa di grandi produzioni, probabilmente sarà colui che avvolge e stende i cavi prima e dopo le riprese) e probabilmente con la curiosità dei vent’anni è stato edotto che a Milano tali Berio e Maderna, fanno delle cose interessanti con l’elettronica e i nastri che chiamano “musica concreta”.

Infatti i procedimenti di modificazione, di distorsione del suono, i nastri mandati al contrario sono tutte cose sperimentate ed elaborate negli anni precedenti nello studio di fonologia della RAI ( e in quelli di Parigi e di Colonia), ma quello che succede quando quel tipo di conoscenze arrivano in mano a un gruppo di venticinquenni inclini all’uso di droghe, ricchi, pieni di donne e di voglia di vivere è qualcosa che cambia tutto.

Al netto del suo chitarrismo il pensiero musicale di Hendrix si articola tre dischi in studio. Nel primo Are you experienced ci dice: sono arrivato, sono qui e niente sarà più come prima. Il messaggio insito nel secondo Axis bold as love ( pubblicato una manciata di mesi dopo) è: adesso tutti voi farete solamente evoluzioni di ciò che state ascoltando e infatti, chi lo considera solo un chitarrista hard rock, non potrà che restare stupito dalla varietà di generi che affronta. E il terzo disco, il doppio lp Electric ladyland? No quello è più di quanto possiamo comprendere. Non siamo ancora pronti.

Va ricordato a tutti quei cultori di Jazz che ritengono in parte anche a ragion veduta che Hendrix rappresenti un involuzione del linguaggio rispetto a tanti chitarristi che calcavano le scene in quegli anni ( Wes Montgomery, Joe Pass, Jim Hall ecc.) che Miles Davis da genio quale era quando sente il primo disco, capisce che sta per cambiare tutto. Getta al vento il quintetto con Shorter, Hancock, Ron Carter e Tony Williams ( da molta critica considerato il migliore di tutti tempi) e si dedica ad una nuova musica in cui il ruolo della produzione sarà imprescindibile a tal punto che i musicisti che suonarono nelle session di In a silent way all’uscita del disco non riconobbero ciò che loro stessi avevano suonato, tanto era stato montato da Davis e il suo produttore dell’epoca Teo Macero. E mai, dico mai ( se si esclude un’unica esibizione al termine della sua vita) volle risuonare quella musica da lui dispregiativamente chiamata “musica per negri”.