Premessa: io non sono tra quelli che lo conoscevano bene. E nemmeno tra quelli che, trattandolo come una caricatura, gli metterebbero mai in testa la corona di “monarca”. A me è semplicemente successo di lavorare per lunghissimi anni nella testata di cui era l’editore. E in quella veste, di giornalista appunto, mi è capitato di incontrarlo. Per l’esattezza: di essere da lui interrogata, di dover rispondere a delle domande, e anche piuttosto circostanziate, sugli argomenti di cui mi stavo occupando. Non sono nemmeno la sola a cui sia capitato, ovviamente, tra i non pochi (all’epoca eravamo all’incirca una quarantina) in forze alla redazione romana della Stampa. Tra questi, anzitutto Francesco La Licata: Ciccio è il più importante mafiologo d’Italia, il giornalista che aveva intervistato Tommaso Buscetta quand’era ancora uccel di bosco. E anche la mafia incuriosiva l’Avvocato.

Ed è proprio questo il punto. Tra i moltissimi articoli che si stanno pubblicando sui media non solo italiani, alcuni bellissimi, altri affettuosi, ma molti anche con tratti esegetici esorbitanti (il che, da lassù, lo farà di certo sorridere), c’è un aspetto che non è comparso: Giovanni Agnelli è stato un grande editore, forse il più grande editore italiano di giornali. Pari solo ad Eugenio Scalfari - che notoriamente non è stato solo un giornalista, avendo diretto per vent’anni il giornale di cui era editore con Carlo Caracciolo (che dell’Avvocato era tra le altre cose anche il cognato). Un editore che conosceva e rispettava la libertà professionale del giornalista. Certo nella cornice di una linea editoriale che viene definita nello stretto rapporto tra l’editore e il direttore che l’editore ha scelto. E finché Giovanni Agnelli è stato editore, io non ho mai ricevuto neanche la minima pressione circa gli articoli che scrivevo. Né ho mai sentito dire che altri le abbiano subìte. La sua scomparsa, non ha nuociuto solo alla Stampa, ma a tutto il sistema dei giornali: per effetto di una concorrenza non solo di mercato, ma di stile.

Credo che Giovanni Agnelli sia stato un grande editore di giornali perché in lui viveva la passione per il giornalismo. Il giornalismo come “pensiero che cammina“, per dirla con Balzac, ma anche il giornalismo che intravede una minuzia, un particolare, e spinge lo sguardo, segue il filo dei dettagli e riesce a ricomporre il quadro nascosto delle vicende. Sì, il diavolo è nei dettagli. Ma per vederli serve un occhio attento, serve la molla della curiosità. E la curiosità dell’Avvocato era insaziabile, un’Araba Fenice: una volta soddisfatta quella precisa curiosità, l’interesse crollava. Per riaccendersi subito altrove.

Alla redazione romana della Stampa (mai invece nella sede centrale di Torino, dove avvenivano solo rare e ufficialissime visite, in una specie di rituale bacio della pantofola) capitava di sentir squillare il citofono, di assistere al fulmineo fuggi fuggi per mettersi giacca e cravatta tra i segretari di redazione (una decina, tutti maschi, guidati dal leggendario Giovanni Corsi) mentre l’altoparlante interno avvisava tutti «sta salendo Giovanni Agnelli». L’Avvocato chiedeva dunque anzitutto di Giovanni Corsi, che poi lo accompagnava dal capo della redazione. Quando chiese di parlare con il giornalista che seguiva le riforme costituzionali - era il turno di quelle di Berlusconi e dei “saggi di Lorenzago” - dovettero fargli il mio nome. Mentre andavo nell’ufficio del caporedattore, incontrai lui che stava venendo da me. E cosi parlammo in piedi, in corridoio. Capii dal primo sguardo che avevo pochi secondi per raccontagli qualcosa che lui non sapesse, cosa già abbastanza difficile, e con tono e possibilmente dettagli intriganti. Curiosamente, è stessa esatta sensazione che ebbi solo davanti a un altra personalità eccezionale, quando mi capitò di dovergli parlare: Enrico Cuccia.

L’Avvocato voleva sapere come procedesse il progetto di riscrittura della Costituzione. Non ricordo cosa gli risposi, cercando di non pronunciare sciocchezze perché per quanto non fossi per nulla intimorita (una cosa che non mi appartiene, ma così purtroppo o per fortuna ci si nasce) capivo che non mi era consentita alcuna superficialità o vaghezza. Ma ricordo che gli brillò il divertimento negli occhi, quando gli raccontai che, inscenando per protesta una specie di Aventino, il presidente dei senatori dei Ds, Gavino Angius, aveva lasciato l’emiciclo canticchiando l’Internazionale. Quando Armando Cossutta si scisse da Bertinotti (salvando l’allora governo Prodi, che pure La Stampa non amava di amore appassionato), commentò «Fondare un partito a settant’anni…che uomo quel Cossutta!». Giovanni Agnelli, forse anche perché era stato militare, era affascinato dal “nemico storico”.

Altre volte capitava che Giovanni Agnelli venisse in redazione per seguire con noi qualche grande avvenimento, come nel caso dell’ insediamento di Carlo Azeglio Ciampi al Quirinale. Una volta ci trovò tutti seduti attorno al tavolone della sala riunioni, e si accomodò su una sedia che trovò vuota. Toccò a Giovanni Corsi sussurrargli che stavolta non poteva stare in mezzo a noi, essendo l’editore, perché quella era una riunione sindacale. L’Avvocato ci salutò ma poi, mi raccontò Giovanni, gli chiese: «Ma, finita la riunione, vanno a lavorare, vero?». Un’altra volta arrivò e vide subito che eravamo in parecchi nella stanza del vicecaporedattore, l’adorabile, elegante Emilio Pucci. Davanti alla scrivania di Emilio stazionava una piccola folla, tutta di uomini. Un paio di loro erano per l’Avvocato delle buone conoscenze. Al suo arrivo, scattarono tutti in piedi. Io ero invece seduta su un divanetto e, ricordandomi che una signora si alza davanti a un uomo solo se si tratta di altezze reali o grandi anziani, non mi mossi. L’Avvocato fece una cosa semplicissima: venne a salutare me, si sedette anche lui sul divanetto, e mentre una grande firma cercava di attirare la sua attenzione parlandogli di soldatini di latta, intavolò una conversazione. Ha visto la mostra di Balthus? Ho visto il meraviglioso quadro di Balthus che era della viscontessa di Noaellies e che tengo in cartolina sulla mia scrivania: lei invece possiede l’originale.

Mi raccontò come era riuscito a convincere Andy Wharol a venderglielo. Non sapendo come continuare la conversazione - la sua attenzione rischiava di precipitare da un momento all’altro, ed era una goduria lasciare i miei colleghi con un palmo di naso - gli dissi che avevo intervistato Balthus, che come lui era stato militare in Nord Africa. Andammo avanti per un po’, poi restai (accade spesso) vittima della mia improntitudine. Ha mai dovuto uccidere qualcuno in guerra? Giovanni Agnelli non ebbe alcuna reazione, fece solo un lieve, vago, elegantissimo segno di stop con la mano destra. E finalmente la sua attenzione si volse al super inviato. E ai suoi soldatini di latta.