Carlo Antoni è per molti versi un pensatore significativo del Novecento italiano, che si è trovato, fra l'altro, al centro di importanti snodi teorici e politici. Eppure, il suo nome dice poco o nulla oggi anche a chi ha una media cultura.Già questo solo elemento dovrebbe portarci a salutare con vivo compiacimento la pubblicazione di una monografia a lui dedicata da Francesco Postorino, un giovane studioso siciliano, formatosi fra Roma e Parigi: Carlo Antoni. Un filosofo liberista (collana "La politica" diretta da Dario Antiseri, Rubbettino, Soveria Mannelli 2016, pagine 162, euro 14,00). Antoni, sin dai suoi primi. giovanili passi a Trieste (la città ove era nato nel 1896), riconobbe in Benedetto Croce il suo maestro e punto di riferimento intellettuale. Concepì però da subito in "modo crociano" questa discepolanza: come adesione sicuramente a un metodo di pensiero e come interesse per determinati problemi, ma mai come mera difesa o ripetizione delle soluzioni del maestro. I problemi erano per lui tali e, nella ricerca delle soluzioni, si allontanò anche sensibilmente dai sentieri tracciati dal suo nume tutelare. Fu, come Croce, un pensatore a tutto tondo: si occupò di estetica (ed è merito di Postorino avercelo ricordato dedicando a questo aspetto tutta la prima parte del suo libro); logica (riflettendo sul concetto di dialettica e smontandolo per molti versi); filosofia (procedendo a una "rivalutazione" del concetto di individuo in un'ottica di "restaurazione del diritto di natura" che non contraddicesse però la metodologia crociana); storia delle idee (con i suoi magistrali volumi sul pensiero tedesco sette-ottocentesco, fra Illuminismo e Romanticismo. E poi sullo storicismo: Antoni era di cultura e formazione tedesca e si era trasferito nel 1932 a Roma proprio per lavorare come assistente a quell'Istituto Italiano di studi germanici che ancora oggi ha sede a Villa Sciarra.I temi e problemi si legavano in lui in maniera libera ma stretta al tempo stesso. E di questo bisogna tener conto per evitare certi possibili equivoci e incomprensioni che possono sorgere sulle sue idee politiche. Le quali fra l'altro hanno sempre, come accadeva anche in Croce, una matrice o un riferimento filosofico che molti interpreti, per lo più interessati all'economia o alle altre scienze sociali, non sempre colgono. Di esse si occupa tutta la seconda parte del libro di Postorino e di esse mi occuperò anche io in questa sede, concentrandomi sul periodo della maturità di Antoni, cioè sugli anni della sua assidua presenza nel dibattito e nella vita politica nazionale (che coincisero anche con quelli più importanti della sua attività di studioso e di professore: nel 1946 ebbe la cattedra di Filosofia della storia alla Sapienza). Siamo nel periodo di fervore e fermento seguito alla caduta del fascismo, e poi di costruzione delle istituzioni e dell'ideologia dell'Italia repubblicana, diciamo negli anni che vanno dal 1943 fino al 1959, cioè quando lo studioso triestino scomparve. Per capire bene l'attività di Antoni in quel periodo, bisogna far riferimento al fatto che, nel campo antifascista, egli si colloca in un gruppo liberale di sinistra che da subito instaura una vivace dialettica con quel Partito Liberale che Croce, Einaudi e loro stessi andavano ricostruendo dopo la parentesi fascista. Il leader di questo gruppo, che operava soprattutto a Roma, era Mario Pannunzio, un intellettuale che si era già affermato negli anni Trenta come promotore di imprese giornalistiche innovative e non intrise di provincialismo ("Caratteri", la longanesiana "Omnibus", "Oggi"). Di esso facevano parte, oltre a Antoni, Leone Cattani, Niccolò Carandini (che sarebbe diventato il primo ambasciatore italiano a Londra dopo la caduta del fascismo), Mario Ferrara (il nonno di Giuliano), Panfilo Gentile, Franco Libonati. Erano intellettuali che, pur ispirandosi a Croce, guardavano al mondo anglosassone, in particolare all'esperienza del New Deal roosveltivano. Il loro riferimento era perciò sia l'America, con la sua cultura di mercato e il suo individualismo, ma anche l'America liberal o democratica: quella parte di nazione che, sullo sfondo accettato di una cultura comune, si proponeva di modernizzare e far progredire la società. Essi credevano nel Progresso, nell'emancipazione, nella "liberazione" sempre più piena dell'individuo: avevano cioè, detto altrimenti, un tèlos, un fine da realizzare; propugnavano, seppure in forme deboli e non statalistiche, ancora e sempre una "teleologia" o "teologia politica". Il liberalismo crociano che, pure aveva sottovalutato il momento dell'intervento o non intervento dello Stato in economia, affidandolo alle concrete scelte fattuali, paradossalmente, col suo carattere metapolitico o metodologico, si teneva più vicino, in quel frangente, al "liberalismo classico", fuori da ogni questione di sostanza o empirica. Il Partito Liberale per Croce doveva essere una sorta di prepartito, il che ne avrebbe costituito indubbiamente anche un limite, condannandolo probabilmente all'inefficacia. Accettare, da parte di Antoni e dei suoi amici, l'intervento positivo dello Stato non per collettivizzare o statalizzare (come volevano non solo comunisti o socialisti ma anche quegli azionisti come Calogero che propugnavano un'economia a "due settori"), ma per "promuovere" la libertà, era comunque un allontanarsi dal liberalismo che proprio in quegli anni un'opera come La via della schiavitù, e in generale l'attività stessa, di Friedrich von Hayek tentava di riportare in auge. Per i liberali classici lo Stato, oltre a garantire la sicurezza pubblica, doveva infatti essere, almeno tendenzialmente, solo un "guardiano" o controllore dei liberi contratti o relazioni fra gli individui, il garante dei diritti individuali di libertà. Quella che perciò Antoni e il suo gruppo individuavano era in concreto una sorta di "terza via" fra l'azionismo e il liberalismo classico: un liberalismo di sinistra che, pur considerando radicalmente nemici i comunisti (al contrario degli azionisti), si poneva un obiettivo di progresso più o meno determinato. Era in sostanza il concetto di "libertà liberatrice" elaborato da un altro importante allievo di Croce, Alfonso Omodeo, che però era passato in campo azionista. Ciò che, d'altra parte, è sicuro è che, fra gli interventi in positivo dello Stato per promuovere la libertà, Antoni non annoverava il Welfare State (che muoveva allora i primi passi con l'azione dei laburisti inglesi). La critica che egli muoveva ad esso non era svolta, come in Hayek, per via economica, ma filosofica, ed era anche per questo molto sofisticata e suggestiva. Nelle politiche welfaristiche, Antoni intravedeva infatti il ritorno sulla scena, attraverso lo Stato-provvidenza che si preoccupa della felicità e del benessere individuale dei suoi sudditi, di quel paternalismo che era stato proprio nel Settecento dell'assolutismo illuminato di un Federico II di Prussia. E contro cui, come egli aveva scritto in un bellissimo capitolo del suo saggio La lotta contro la ragione (1942), l'amato Kant (seguito da Humboldt) aveva lanciato strali indimenticabili affermando che con l'Illuminismo l'uomo era uscito di minorità e non aveva più necessità di essere accompagnato con le dande sui sentieri della vita da balie di qualsiasi tipo. In ogni caso, proprio perché si muoveva in uno stretto crinale, nonostante questa e altre affinità con Hayek, si può dire che l'adesione alla Mont Pélerin Society, che lo portò ad essere nel 1947 l'unico italiano presente alla riunione di fondazione, si giocò per Antoni tutta su un equivoco. Il liberismo che egli aveva in mente non era quello del pensatore austriaco. E nemmeno quello intriso di socialità e solidarismo cristiano di Wilhelm Roepke, che faceva pure parte del gruppo originario della società. Quel Roepke che ammetteva un intervento volto ad eliminare i monopoli ma non, come Antoni, anche uno volto ad agire sulle distorsioni dovute alle diseguali "condizioni di partenza" degli individui. Antoni era, a tutti gli effetti, quello che altrove e dopo si sarebbe definito un liberal. Ma arrivava ad esserlo per via filosofica e persino "idealistica". Più significativo nella sua biografia intellettuale e politica di Antoni è perciò un altro evento di quel 1947, anno in cui può farsi iniziare la "guerra fredda": Pannunzio, con il suo gruppo, viene messo in minoranza nel Partito Liberale dai conservatori che fanno capo a Roberto Lucifero. Ne esce e Antoni lo segue. Lascia anche la direzione di "Risorgimento liberale", l'organo del partito da lui stesso fondato in clandestinità, e dà vita a una nuova rivista, "Il Mondo". Antoni ne sarà uno dei più assidui collaboratori, firmando la rubrica "Il tempo e le idee". Rientrati nel Partito, per intercessione di Croce, nel 1951 (anno in cui, fra l'altro, Antoni promuove in funzione anticomunista, con Silone e altri, l'Associazione per la libertà della cultura), i liberali di sinistra ne usciranno definitivamente allorquando, con un giovane Pannella, daranno vita nel 1955 al Partito Radicale. La via teorico-politica di Antoni era ormai segnata, sempre più lontana dal liberalismo classico e "conservatore" (e da quel Partito Liberale che dal 1954 era nelle salde mani di Giovanni Malagodi). Egli cercava sempre più ora una soluzione di sinistra ai problemi italiani, accentuando l'aspetto progressista del suo pensiero. Parlava non di "protezione" dell'individuo, come i liberali classici, ma della sua "promozione", "emancipazione", "liberazione", addirittura "redenzione". Il suo liberismo si faceva sempre più tiepido e non esitava a individuare ferme di mediazione con le predominanti forze stataliste presenti nel panorama nazionale. In nome di una modernizzazione e di diritti astratti, egli, come d'altronde tutto il gruppo de "Il Mondo", si collocava nell'alveo dell'ideologia italiana. Dalla parte più nobile e minoritaria di essa, certo. Sempre, tuttavia, all'interno di un perimetro ben delineato e di una "lunghezza d'onda" ben definita.