Matteo Renzi avrebbe potuto sintetizzare così il suo progetto di striminzita riforma Rai: «Voglio un Ettore Bernabei». Nessuno più del patriarca fiorentino morto sabato scorso alla bella età di 96 anni, spesi senza perdere fino all'ultimo un filo di lucidità, incarnava il modello di direttore generale onnipotente, capace di controllare l'intera filiera della produzione televisiva e allo stesso tempo fedele al potere politico che lo aveva insediato. Lo aveva fatto per 14 anni filati, dal 1961 al 1974, vagliando di persona tutto; «Bilanci, copioni e scalette: vigilavo sulla qualità».Dicono che sia stato lui a costruire la Rai ed è vero: la tv presa da Bernabei agli albori del decennio più felice della storia repubblicana era una scatola vuota con la quale nessuno sapeva bene cosa fare, uno strumento di immensa potenza in funzione già da sette anni e con sei milioni di abbonati, peccato che non ci fosse chi sapesse come farlo funzionare. Se ne occupò lui, giornalista cattolicissimo proveniente da una famiglia di mangiapreti, come confessò lui stesso in un'intervista a Stefano Merlo: il nonno numerava la folta prole, Primo, Secondo, ecc., per non dover marchiare figlie e figli col nome di qualche santo. Ettore però aveva preso dal padre Quarto, cattolico monarchico e per questo cacciato di casa. Se gli raccomandavano qualcuno citando la tessera Dc chiedeva se oltre che democristiano il raccomandato fosse anche cattolico praticante o solo tesserato.Quando entrò a viale Mazzini, nel gennaio del 1961, Bernabei non era di primo pelo. Laurea in Lettera, guerra in Montenegro, lavorava nei giornali dal 1945. Aveva alle spalle due direzioni, il Giornale del Mattino, a Firenze dal 1951 al 1956, poi il quotidiano della Dc, Il Popolo, dal 1956 al 1961. Esperienze senza dubbio utili ma il grosso il nuovo dg se lo inventò da solo e senza maestri, perché di guru televisivi ai tempi in Italia proprio non ce n'erano. Era un talento naturale il suo, una capacità innata di capire cosa vuol dire fare televisione affinata poi con l'esperienza. Tanto da permettergli di fondare a settant'anni, dopo aver guidato per un altro quindicennio e con grandissimo successo la partecipata Italstat, la principale società di produzione televisiva italiana, Luv Vide, diretta oggi da Matilde e Luca, due dei suoi otto figli.La tv immaginata e realizzata di persona dall'imperatore di viale Mazzini erano, per esempio, le gemelle Kessler: oggi è troppo facile ironizzare sul moralismo che le imponeva in calzamaglia scura pur se trasparente dimenticando che fino a quel momento più del polpaccio sul piccolo schermo tricolore non s'era mai visto. Quando gli rinfacciavano quella pruderie l'ex direttorissimo rispondeva sbrigativo: «Io le Kessler non le ho coperte. Le ho spogliate». Era la storica scuola di Non è mai troppo tardi, col maestro Alberto Manzi che insegnava i rudimenti a migliaia di adulti analfabeti, e in Italia erano un esercito. Era Carosello, un modello unico al mondo e a tutt'oggi non abbastanza apprezzato di intreccio tra pubblicità e spettacolo, pensato con il conclamato obiettivo di non lasciare allo spot il pieno dominio. Era Canzonissima, che ancora oggi se a un conduttore vuoi fare un complimento gli dici che il suo programma è "quasi" a quel livello. Erano i grandi romanzi sceneggiati, quelli che a tutti capita una volta o l'altra di rivedere e alzi la mano chi non si è sorpreso a pensare: ma dove sono finiti gli attori italiani capaci di tanto?La verità è che anche il riconoscimento in apparenza insuperabile di aver «creato la Rai» per Ettore Bernabei è riduttivo. Il direttore generale per eccellenza ha fatto molto di più: ha creato i cittadini della Repubblica italiana e non c'è riuscito per caso. Era quello il suo obiettivo, consapevolmente perseguito con la lucidità e la determinazione di chi per primo aveva capito le potenzialità di quello scatolone che anno dopo anno occupava una via l'altra le case degli italiani. "Fare gli italiani", come ha ricordato lo stesso Bernabei in decine di interviste disseminate nei decenni, voleva dire dare una lingua comune a un popolo che per lo più si esprimeva in una quantità di dialetti. Significava offirire almeno le nozioni basilari a una popolazione dove l'analfabetismo dilagava. Comportava la capacità di coniugare cultura e divertimento: «O sempre avuto un obiettivo preciso: fare in modo che gli italiani andassero a dormire con qualche soddisfazione. Volevo informarli, educarli, divertirli, con qualcosa che contribuisse a farne dei buoni cittadini». Non c'è presidente o direttore generale di viale Mazzini che non abbia in seguito confermato quella formuletta, tanto da renderla in apparenza banale: lo sanno tutti che proprio quella è la missione del servizio pubblico! La differenza sta nel fatto che Ettore Bernabei non si limitava a enunciare la nobile finalità salvo poi mancare puntualmente l'obiettivo. Si dava da fare per raggiungerlo e quasi sempre ci riusciva.Non significa che non fosse uomo di partito, fedele, anzi fedelissimo, alla Dc tutta ma soprattutto al suo leader di riferimento: Amintore Fanfani. Anzi "Enea", come lo chiamava in codice nelle telefonate con gli altri dirigenti Dc per dribblare le intercettazioni, delle quali era già allora pienamente consapevole: da Enea Piccolomini, con riferimento al metro e 50 scarso vantato dal dinamicissimo Amintore. Ogni sera, dopo aver smontato da viale Mazzini alle 21.30 precise, passava a casa del leader Dc per raccontargli la giornata: «I politici hanno bisogno soprattutto di informazioni».Bernabei impostava la "sua" Rai come macchina per la produzione di consenso, e non lo ha mai negato. Era convinto che «chi fa una brutta tv perde le elezioni», e spiegava così non solo la sconfitta del pentapartito nelle elezioni del 1992, quella che spalancò i cancelli a Mani pulite, ma anche i rovesci del centrosinistra e di Berlusconi nel nuovo millennio. Però era troppo capace ed esperto, conosceva e capiva le dinamiche della tv troppo bene per pensare che tutto si risolvesse nella colonizzazione dei Tg, i quali, sosteneva invece a ragione, «influiscono poco sull'opinione elettorale». Coltivava e praticava una strategia più sottile: gli spettatori-elettori dovevano andare a dormire soddisfatti, perché in caso contrario avrebbero accumulato rabbia destinata poi a essere sfogata anche nella cabina elettorale.Molto più dell'informazione era l'intrattenimento a poter assolvere il compito di "mandare gli spettatori a letto soddisfatti", purché lo si sapesse dosare. Le gambe inguinate in calze trasparenti delle Kessler funzionavano perché permettevano ai mariti di sognare "accontentandosi" poi delle gambe delle mogli, mentre l'esposizione cruda dei decenni successivi non poteva che risolversi in insoddisfazione e frustrazione, dunque in responsi elettorali penalizzanti per i partiti di governo, anzi per il partito al governo: la Dc.Ettore Bernabei era un uomo della prima Repubblica e non se ne vergognava. Ha rivendicato fino all'ultimo quei metodi. C'era la lottizzazione? Certo: «Tre posti alla Dc, due al resto del mondo. Proprozioni eque». Le raccomandazioni pesavano? Altroché, 20mila all'anno e un ufficio creato proprio dal direttore generale per smistarle: «Ma senza di quelle non avrei assunto Fabiani o Arbore». Censura? Ovvio e almeno in alcuni casi, come il benservito a Dario Fo e Franca Rame, difesa anche a distanza di quarant'anni: «C'erano stati scontri tra edili e polizia a Roma e nello sketch il padrone brindava ogni volta che moriva un operaio. La tv deve essere una guida, mai un cattivo esempio».Non era un uomo al di sopra delle parti come oggi pretendono di essere un po' tutti quelli che pilotano viale Mazzini. Era, molto più onestamente, un uomo di parte con una visione più ampia e ambiziosa del semplice interesse di partito, capace di coniugare la partigianeria con un prodotto di oggettiva e altissima qualità e di dialogare e trattare con tutti: intimo di pontefici e leader democristiani intratteneva buoni rapporti anche col Pci e quando si trattava di assumere non guardava troppo alle tessere. La sua Rai contava nomi eccellenti che con la Dc avevano ben poco a che spartire, Fabiano Fabiani, Alberto Ronchey, Arrigo Levi, Furio Colombo, e una intera generazione ribelle si è formata sui romanzi sceneggiati di mamma Rai molto prima e molto più che non sui testi di Karl Marx.Questione di formazione. La Dc era davvero anche clientela e occupazione dello Stato ma non solo questo. Ed Ettore Bernabei proveniva dalla sua area migliore, quella allevata dal cardinal Montini, futuro Paolo VI, nella Fuci, quella di Dossetti e La Pira, formata e forgiata come in una vera e propria scuola di partito. In fondo non c'è troppa differenza, se si resta al metodo e alla cornice, nel modus operandi di Ettore Bernabei e del solo altro grande mago della comunicazione televisiva che ci sia stato in Italia, Silvio Berlusconi. Entrambi sono andati molto oltre la creazione di un modello televisivo per formare un pubblico di spettatori-elettori, secondo criteri però opposti, e la differenza rispecchia con fedeltà massima la distanza tra la prima Repubblica, di cui Ettore Bernabei è stato non solo un protagonista ma uno dei principali architetti, e la desolata seconda Repubblica.Si può capire perché per la sua Rai il fiorentino Renzi abbia preso a modello quella di Ettore Bernabei, a cui infatti quella riforma non dispiaceva affatto. Peccato che per funzionare quel modello necessiti appunto di figure come Bernabei. Quando ci si deve accontentare di Campo Dell'Orto è meglio soprassedere.