Il 1968, anno incendiario e luminoso, ricco di rabbia e di speranza e dunque di rivolta, lo ricordiamo tutti. Celebrarlo è già da un pezzo liturgia. Del 1978, anno mesto e luttuoso, parliamo invece poco, e quasi solo in virtù di quel sequestro durato 55 giorni che condizionò in effetti la sorte della Repubblica italiana come nulla sino a quel momento e che è circondato ormai da tante di quelle favole e leggende e ridicoli sospetti da essere quasi avulso dalla storia: pane per i denti degli studiosi della piscopatologia di massa.

Invece il mondo in cui viviamo è nato proprio il quel grigio e triste 1978, quando gli italiani combattevano con un’inflazione ben oltre il 20% e già da un paio d’anni erano abituati a usare bizzarri “miniassegni” emessi dalle banche al posto degli spicci, quando era lecito confondere il vento islamico che per la prima volta soffiava impetuoso in Medio Oriente con una promessa di riscatto, quando i lavoratori italiani scoprivano con un certo smarrimento che le loro rappresentanze sindacali e quelle politiche erano pronte a far pagare proprio a loro i prezzi della crisi, in quella svolta storica che fu definita allora “dell’Eur”, mentre quelli inglesi neppure immaginavano che un ciclone di proporzioni mai viste in precedenza, l’uragano Maggie, stesse per abbattersi sulle loro teste e sulle loro tasche per poi dilagare in tutto il mondo.

Da noi, in Italia, non servivano doti profetiche per indovinare che sarebbe stato un anno difficile. Bastava ascoltare il discorso di fine anno del presidente Giovanni Leone, già assediato per un presunto e inesistente coinvolgimento nello scandalo Lockheed, per capire che la febbre era altissima. Come si fa a equivocare quando il capo dello Stato, che sarebbe di lì a poco stato costretto alle dimissioni da una campagna stampa tanto infondata quanto violenta, conclude il suo messaggio augurale affermando: «Non vi ho detto parole serene come avrei sperato e anzi in esse avrete trovato motivi di preoccupazione?» Forse il cupo pessimismo di Leone era anche un riflesso dei guai nei quali stava annegando. Dovette lasciare il Quirinale con sei mesi d’anticipo e al suo posto, in luglio, arrivò Sandro Pertini.

Ma Leone aveva anche parecchi motivi oggettivi per stappare lo chamapagne senza troppi sorrisi. Le tensioni sociali erano oltre l’allarme rosso e le barricate dell’anno precedente a Roma, Milano e Bologna promettevano sfracelli. Il Palazzo era fragile come mai prima, con un governo tenuto in piedi solo dalla benevola astensione del partitone d’opposizione, il Pci di Enrico Berlinguer. Un numero non esiguo di giovani militanti cresciuti nel decennio rosso avevano deciso di passare “dalle armi della critica alla critica delle armi” e parecchi altri si apprestavano a farlo arruolandosi nelle Brigate Rosse, in Prima Linea o nella pletora di sigle minori che fiorivano ovunque.

Il polso della situazione non perse tempo nel notificarsi. Scelse l’esecuzione di due militanti del Msi di fronte alla sezione romana Acca Larentia, la sera del 7 gennaio. Poche ore dopo una terza vittima: circostanze misteriose ufficialmente ma che la polizia spari sui militanti che protestano è certo. Però a denunciare i carabinieri nonostante il veto missino, della migliaia circa di neofascisti presenti ci va solo una ragazza: Francesca Mambro. Per i ragazzini di estrema destra Acca Larentia è una specie di “perdita dell’innocenza” come quella che aveva colpito i coetanei di sinistra quasi 10 anni prima in piazza Fontana. I Nar, destinati a diventare negli anni seguenti la più temuta banda armata di destra, nascono davvero in quella tragica serata e pochi giorni dopo cercano vendetta sbagliando bersaglio. Uccidono un poveraccio che la strage di Acca Larentia non c’entrava niente, Roberto Scialabba. Nemmeno due mesi dopo anche i Nar avranno la loro prima vittima, Franco Anselmi, colpito alle spalle dopo una rapina in un’armeria dal proprietario della stessa. Il crepitio delle pallottole, nonostante il terrorismo fornisca un prezioso terreno comune ai partiti della solidarietà nazionale, dunque essenzialmente a Dc e Pci, non basta a coprire gli scricchiolii dell’alleanza che permette al governo Andreotti di esistere nonostante difetti della maggioranza parlamentare. Al Pci la formula della “non sfiducia” non basta più. Il partito e la Cgil hanno accettato con la svolta dell’Eur di farsi carico, a spese del salario, del risanamento. In cambio promettono ai lavoratori aumenti dell’occupazione che però latitano. Il sostegno al governo e alle sue politiche economiche diventano ogni giorno meno comprensibili. Berlinguer deve portare a casa qualche risultato e reclama l’ingresso a pieno titolo nella maggioranza, modifiche sostanziali sia nella composizione che nelle politiche del governo. Ma convincere la Dc è impresa quasi impossibile. Aldo Moro, presidente del partito, ci riesce ma a prezzo carissimo: nessuna delle richieste del Pci verrà accettata. Nel governo resteranno i ministri messi all’indice dal bottegone e nessuno dei “tecnici d’area” indicato dai comunisti ne farà parte.

Quando il nuovo governo è alla vigilia del decollo, i malumori dei leader comunisti tengono banco e occupano paginate sui giornali. C’è persino chi mette in dubbio il voto di fiducia, come il battagliero Giancarlo Pajetta. E’ una classica sceneggiata. Il sì del Pci è già certo. Dovrebbe arrivare dopo un serrato dibattito parlamentare, a partire dalla mattina del 16 marzo. Invece per una volta la tragedia vera, quella che costa sangue e cadaveri, incrocia la messa in scena di Montcitorio.

Poco prima dell’inizio del dibattito in aula le Br attaccano, sterminano la scorta di Moro, rapiscono il presidente della Dc.

Il Parlamento, sotto shock, vota la fiducia in quattro e quattr’otto. Il presidente della Camera, il leader della sinistra del Pci Pietro Ingrao, farà in modo che di fatto non torni più a riunirsi sino al termine del lunghissimo dramma. Durò 55 giorni, costellati dalle lettere sempre più disperate del prigioniero, dai comunicati più gelidi di quanto non fossero in realtà gli estensori dei sequestratori, dalle richieste sempre più stridule di fermezza da parte di un composito fronte che preferiva Moro morto a qualsiasi gesto potesse anche solo sembrare debole, dalla fellonia degli amici dell’ex potentissimo che non esitarono a rinnegarlo e a dichiararlo pazzo per evitare che le sue missive fossero prese sul serio, dal dolore composto e lancinante della famiglia, il solo elemento in quei giorni che ricordasse l’esistenza di sentimenti e logiche diverse dal gelido interesse politico che dominava invece tutti gli altri attori in campo.

Il nove maggio il cadavere di Aldo Moro fu fatto ritrovare dalle Br in via Caetani a Roma, una strada vicina sia alla sede nazionale del Pci che a quella della Dc. Per le Br, anche se allora nessuno poteva immaginarlo, quello fu l’inizio della fine. Lo fu anche per la prima Repubblica. Il lungo ponte tra l’uccisione di Moro e tangentopoli fu in realtà qualcosa di sostanzialmente diverso dal trentennio precedente: un triumvirato che governava senza più progetto politico, con un Pci messo una volta per tutte alle corde.

Quanto ai “programmi” il governo sostenuto ormai attivamente dai comunisti concesse qualcosa di importante sul fronte dei diritti civili in quel 1978, prima che la maggioranza si sfasciasse nel gennaio dell’anno seguente. In maggio vennero approvate prima la legge Basaglia sulla chiusura dei manicomi, poi la legge sull’aborto. Quelle leggi resero l’Italia un Paese certamente più civile ma non bastarono a compensare la crisi di consensi che colpì il Pci in seguito alle politiche economiche di fatto anti- operaie dei governo di solidarietà nazionale. Nelle elezioni della primavera 1979 il Pci perse due milioni di voti e non si riprese mai più dal colpo. E’ appena il caso di notare che quell’esito era stato pianificato e previsto sia da Andreotti che dallo stesso Moro. Entrambi lo illustrarono all’ambasciatore americano Gardner, cercando di spiegargli perché il coinvolgimento del Pci nell’area di governo si sarebbe rivelato devastante per il Pci stesso.

Forse l’uomo che soffrì di più per l’esito della tragedia Moro, dopo i familiari del leader Dc, fu Giovanni Battista Montini, da 15 anni pontefice: Paolo VI. Il papa aveva raccolto, d’accordo con Andreotti, una cifra enorme da offrire alla Br in cambio della vita di Aldo Moro, a cui era legatissimo. Gli toccò pronunciare la frase che sapeva essere una condanna a morte per il suo amico, «Liberatelo semplicemente, senza condizioni». Non si riprese dal colpo e seguì il presidente della Dc nella tomba dopo meno di tre mesi, il 6 agosto.

Il successore, Albino Luciani, fu eletto abbastanza rapidamente e a sorpresa. Prese il nome di Giovanni Paolo I, stupì il mondo con uno stile all’epoca inusuale e dichiarando che «Dio è papà ma più ancora è madre». Trapassò dopo appena 33 giorni di pontificato, suscitando inevitabili sospetti su una fine così improvvisa. Il quotidiano Lotta continua, beffardo, uscì con uno dei suoi titoli migliori: «E’ rimorto il papa».

In ottobre il conclave scelse come nuovo pontefice Karol Wojtyla, cardinale polacco, che assunse il nome di Giovanni Paolo II. Era il primo papa non italiano dai tempi di Adriano VI, dunque dal 1523. Ma per rintracciare una sorta di albero genealogico di Wojtyla si sarebbe dovuto guardare a un altro papa del XVI secolo: Giulio II, il papa guerriero. Giovanni Paolo II non era un politico abile nei giochi di curia, non era un intellettuale raffinato come Paolo VI e non era neppure un porporato con radici nel popolo come Giovanni XXIII. Era un combattente, un generale che prendeva sul serio la propria missione: sconfiggere il comunismo. Ci riuscì e nel crollo del Muro, 11 anni dopo l’ascesa al soglio di Pietro, pesò persino più degli altri due comandanti di quella crociata: Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Anche se sul momento nessuno poteva saperlo, quel Muro, simbolo della Guerra fredda e della divisione del mondo in blocchi a modo loro ordinati, avreva cominciato a sgretolarsi con la fumata bianca che nel pomeriggio del 16 ottobre annunciò l’esito del secondo Conclave riunito nel 1978.

Wojtyla non era l’unico leader religioso capace di indossare la corazza, in quel sottovalutato 1978. In quello stesso autunno l’ayatollah Ruholla Khomeini, massima autorità dell’Islam sciita, sfidò dal suo esilio parigino lo scià Reza Pahlevi. Un composito fronte che vedeva i Mullah a fianco dei fedayin del popolo comunisti e delle stesse élites liberali iraniane riempì le piazze di Teheran e dell’intero Paese. Alla fine del 1978 la partita non era ancora finita ma l’esito era già evidente. Pahlevi si sarebbe dimesso il 16 gennaio del ‘ 79 ma l’illusione di poter conciliare conflitto sociale, democratizzazione e Repubblica islamica durò pochissimo.

In dicembre, così come se nulla fosse, nacque anche l’Unione europea. Non si chiamava ancora così, ma lo Sme, il Sistema monetario europeo, ne era il consapevole presupposto, non un passo qualsiasi ma quello decisivo. Sarebbe stato proprio lo Sme a provocare quella rottura tra Dc e Pci per evitare la quale era stato sacrificato Aldo Moro. A bersagliare con lucida preveggenza l’Europa della moneta fu Giorgio Napolitano, nell’aula di Montecitorio. Peccato che quel discorso lo abbia poi dimenticato, o le sue posizioni sulla Ue sarebbero state nel XXI secolo ben diverse.

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