Magari sbaglierò - e in tal caso me ne scuso in anticipo - ma sospetto che l'ingeneroso giudizio espresso da Rino Formica su Sandro Pertini, presidente della Repubblica dal 1978 al 1985 sotto presunta e totale influenza del compianto Antonio Maccanico e di Eugenio Scalfari, risenta della sensazione avvertita da molti socialisti che il pur autorevole esponente del Psi, già presidente della Camera, fosse stato scelto per il Quirinale più dal Pci di Enrico Berlinguer e dalla Dc di Benigno Zaccagnini che da Bettino Craxi. Il quale ne avrebbe subìto la candidatura pur di chiudere formalmente a favore del Psi la difficile partita della successione al democristiano Giovanni Leone, costretto alle dimissioni sei mesi prima della fine del mandato presidenziale, e all'indomani della tragica fine di Aldo Moro, per una campagna scandalistica avviata dai radicali. Che se ne sarebbero pentiti e scusati con l'interessato, allora per fortuna ancora in vita, una ventina d'anni dopo.Il problema di una candidatura socialista al Quirinale, nel rispetto dell'ormai tradizionale alternanza fra un cattolico e un laico, fu posto da Craxi con una forza pari solo alla diffidenza del Pci e della Dc anche per le sofferenze politiche e umane che l'uno e l'altra ritenevano di avere ingiustamente patito durante i 55 drammatici giorni del sequestro di Moro. Non erano state gradite, in particolare, le resistenze opposte da Bettino alla linea della cosiddetta fermezza, imposta al governo monocolore della Dc guidato da Giulio Andreotti e sostenuto in modo determinante dal Pci negli anni della cosiddetta solidarietà nazionale. Che fu scambiata da alcuni per il "compromesso storico" proposto da Berlinguer alla Dc e rifiutato da Moro, convinto che in quella fase la collaborazione con lo scudo crociato non potesse superare i limiti parlamentari e trasformarsi in una partecipazione dei comunisti al governo.Già imbarazzante di suo per democristiani e comunisti, la prenotazione socialista del Quirinale divenne impraticabile quando Craxi propose come candidati prima Antonio Giolitti, ancora inviso al Pci per esserne uscito dopo l'invasione sovietica dell'Ungheria, nel 1956, e poi Giuliano Vassalli. Che, per quanto valoroso partecipe della Resistenza a Roma durante l'occupazione tedesca e insigne giurista, aveva avuto la colpa, agli occhi dei sostenitori della linea della fermezza durante il sequestro di Moro, di avere aiutato al Quirinale Giovanni Leone a individuare quale dei 13 detenuti, che i brigatisti rossi avevano reclamato di scambiare con il loro prigioniero, potesse essere graziato.La scelta era caduta su Paola Besuschio, condannata in via definitiva per reati di terrorismo ma non di sangue, e ammalata. Però Leone, forse destinato a pagare proprio questa "colpa" quando comunisti e democristiani ne avrebbero reclamato le dimissioni con altre motivazioni di opportunità più moralistica che morale, non aveva fatto in tempo a firmare la grazia. Per non trovarsi di fronte a decisioni che potevano dividerli più di quanto già non fossero a contatto con l'ostaggio, i terroristi anticiparono gli eventi uccidendolo. E lasciandone beffardamente il cadavere a mezza strada fra le sedi del Pci e della Dc, proprio mentre si avviavano i lavori della direzione democristiana, dove il presidente del Senato Amintore Fanfani si era impegnato con Craxi a fare un discorso di sostanziale copertura a ciò che Leone si accingeva a fare.Salta VassalliPoteva pertanto essere comprensibile, per quanto non condivisibile, il rifiuto dei dirigenti democristiani e comunisti, e di Ugo La Malfa, il vero capofila della linea della fermezza sul caso Moro, di mandare al Quirinale il pur degnissimo Vassalli. E Craxi realisticamente se ne rese conto, per cui aderì immediatamente alla proposta comunista, suggerita in particolare da Giancarlo Pajetta, di eleggere Pertini. A favore del quale giocavano parecchi fattori. Innanzitutto, specie agli occhi della Dc, il cui capogruppo alla Camera Flaminio Piccoli ebbe la spudoratezza di sottolinearla pubblicamente, un'età tanto avanzata da potere fare sperare in una presidenza breve. Che invece si dispiegò vigorosamente in tutta la sua durata, sino a qualche tentazione addirittura di conferma. Giocavano inoltre a favore di Pertini il carcere vissuto da antifascista, con tanto di intimazione alla madre di non chiedere la grazia; la partecipazione da posti di comando alla liberazione dell'Italia del Nord dall'occupazione nazifascista; il distacco dai giochi delle correnti nel suo partito; la pubblica dissociazione dalla linea umanitaria opposta da Craxi a quella della fermezza durante il sequestro Moro e una concezione altissima delle istituzioni.A quest'ultimo proposito, non dimenticherò mai la telefonata con la quale nel 1973 egli mi comunicò di avere appena cacciato dal proprio ufficio di presidente della Camera il segretario del suo partito, Francesco De Martino. Che gli era andato a proporre di dimettersi per fare posto a Moro, in cambio del laticlavio alla morte del primo senatore a vita. Il tutto doveva servire alla ripresa della collaborazione di governo fra democristiani e socialisti appena concordata fra i capi delle correnti della Dc in una riunione promossa a Palazzo Giustiniani dal presidente del Senato Amintore Fanfani. Eppure si era arrivati alla immediata vigilia di un congresso di partito in cui il segretario Arnaldo Forlani e il presidente del Consiglio Giulio Andreotti contavano di avere la maggioranza per proseguire la politica di centro ripresa l'anno prima.Il centrosinistra si rifece con Fanfani segretario della Dc, Mariano Rumor presidente del Consiglio e Pertini fermo al suo posto di presidente della Camera, convinto di avere impedito un "mercato inaccettabile di cariche istituzionali". In polemica diretta con chi gli aveva promesso il laticlavio a spese del primo che sarebbe morto, egli augurò pubblicamente "lunga vita ai senatori a vita".I jeans di BettinoFrancamente non so se alle Botteghe Oscure e a Piazza del Gesù ci fosse stato davvero un piano diabolico, temuto da alcuni socialisti, di mandare al Quirinale Pertini per segare le gambe troppo lunghe e temute di Craxi. So però che se ci fu quel piano, si rivelò un fiasco. Per quanto insofferente pure lui per lo stile, i modi, la stessa statura fisica, quel garofano nel nuovo simbolo del Psi che mi confidò di sembrargli "più un pennello da barba che un fiore", Pertini fu un presidente della Repubblica e un socialista leale con Craxi.Fu proprio Pertini già l'anno dopo il suo insediamento al Quirinale a spiazzare democristiani e comunisti ponendo il problema della candidatura di Craxi a Palazzo Chigi. Gli conferì infatti nell'estate del 1979 l'incarico di presidente del Consiglio spiegando a Zaccagnini che così, come segretario della Dc, sarebbe stato in grado di verificarne direttamente l'attendibilità come nuovo e stabile alleato dei democristiani, fra i quali ce n'erano ancora di convinti che fosse possibile e più conveniente, o meno oneroso, un accordo con i comunisti.Craxi ce la mise tutta, anche rinunciando ai jeans, che Pertini lo diffidò dall'indossare nel ricevere l'incarico, per riuscire nel suo tentativo di formare un centrosinistra allargato ai liberali. Ma la direzione della Dc, ad eccezione di Arnaldo Forlani, che si astenne nella votazione, gli chiuse la porta in faccia. Craxi si sentì trattato, e consolato da Pertini, come una giovane araba ben bene esaminata dai parenti di chi la voleva sposare e alla fine rifiutata per il suo naso.Per attrezzarsi alla concorrenza di Craxi, che temeva sempre di più, la Dc nel 1982 si affidò al segretario più anticraxiano sulla piazza congressuale: Ciriaco De Mita. Ma fu proprio questi l'anno dopo, uscendo dalle urne elettorali con quasi il 6 per cento in meno di voti, a negoziare col reincaricato Craxi la formazione del primo governo a guida socialista. E con un altro socialista ben visibile, mica defilato, al Quirinale. Il democristiano più alto in grado governativo divenne Forlani, vice presidente del Consiglio.Quando Craxi e il suo governo pentapartito, esteso dal Psi al Pli, ma con la Dc titolare della metà dei Ministeri, fece la prova di forza con l'opposizione comunista sui tagli antinflazionistici alla scala mobile dei salari, Pertini non esitò un istante a firmare il decreto legge fra la delusione, a dir poco, del Pci di Berlinguer. E una certa diffidenza di De Mita, che nel referendum abrogativo l'anno dopo non si spese molto per aiutare Craxi, pronto renzianamente - si potrebbe dire oggi, o si poteva dire sino a qualche settimana fa - a dimettersi in caso di sconfitta. Vinse clamorosamente il no all'abrogazione. Ma a Nusco, il paese di De Mita, che ne è oggi orgogliosamente il sindaco, vinse il sì, come fece perfidamente osservare Craxi.L'unico momento della lunga permanenza di Bettino a Palazzo Chigi in cui mi capitò di sentire Pertini furiosamente polemico con lui fu nel 1984, quando alla morte di Enrico Berlinguer non Craxi ma alcuni suoi amici accusarono il presidente della Repubblica di eccessiva partecipazione al dolore dei comunisti, aiutandoli così nelle elezioni europee a sorpassare la Dc. «Questi presunti compagni sono sciagurati», mi gridò al telefono Pertini aggiungendo addirittura: «Il mio aereo se lo scordino». Era l'aereo presidenziale col quale egli, dopo essere andato a Padova a rendere omaggio a Berlinguer, volle trasportarne il feretro a Roma.Come nella partecipazione alle tragedie, per esempio a quella del terremoto in Irpinia del 1980, quando accorse fra le macerie e al sisma fisico ne aggiunse uno politico sferzando il governo di turno e il Parlamento per la legge sulla protezione civile rimasta incredibilmente senza un regolamento di attuazione; o a quella del povero Alfredino Rampi, precipitato e morto nel 1981 in un pozzo di Vermicino, su cui il presidente della Repubblica accorse e si sporse, sino a intralciare i vigili del fuoco impegnati nel purtroppo inutile tentativo di salvare il bambino; come nella partecipazione alle tragedie, dicevo, anche nei rapporti personali le arrabbiature di Pertini erano irrefrenabili.Lo provai sulla mia pelle la volta in cui scrissi sul Giornale di Indro Montanelli di qualcosa che lui mi aveva detto in un pranzo a Castelporziano e che riteneva evidentemente destinato a rimanere fra di noi. A un comunicato di smentita fatto diffondere dal suo portavoce Antonio Ghirelli, peraltro destinato ad una rocambolesca rimozione durante una visita ufficiale in Spagna, tentai un chiarimento con una lettera. Che il presidente mi rimandò indietro tramite un motociclista scrivendo di suo pugno sulla busta: "Si respinge al mittente con preghiera di non disturbare più il destinatario".Rimasi naturalmente di sasso. Ma dopo qualche mese, quando lasciai il Giornale con Enzo Bettiza per dissenso politico dal direttore, Pertini tornò a farmi saltare dal letto con una telefonata cominciata così, senza nemmeno salutarmi: «Facciamo la pace». E non mi mollò sino a quando non gli raccontai per filo e per segno l'accaduto. Che lui alla fine commentò così: «Non si rompe con gente come voi. Ci si chiude in una stanza e si esce solo dopo essersi accordati». Contrariamente - debbo dire - a quanto lui aveva fatto con me rimandandomi indietro quella lettera.De Mita naturalmente soffriva la coppia socialista al Quirinale e a Palazzo Chigi, al pari del Pci nel frattempo passato dalle redini di Berlinguer a quelle di Alessandro Natta. Ma per liberarsi di Craxi, reclamando la famosa "staffetta" con un democristiano, allo scopo però di portare il Paese alle elezioni anticipate, non di chiudere la legislatura alla scadenza ordinaria del 1988, il segretario della Dc dovette attendere che Pertini lasciasse il Quirinale, sostituito da Francesco Cossiga.Per quanto amico dichiarato del leader socialista, Cossiga gli negò nel 1987, a crisi di governo imposta da De Mita, il diritto reclamato di gestire le elezioni anticipate. E consentì la formazione di un governo monocolore democristiano presieduto da Fanfani. Che, rischiando di avere la fiducia dei socialisti, decisi a portare avanti la legislatura col regolare svolgimento dei referendum contro l'energia nucleare e soprattutto per la responsabilità civile dei magistrati, se la fece negare dai parlamentari del suo partito con un voto di astensione. Incredibile, ma vero.Pertini, dal canto suo, diventato senatore a vita nel 1985 non per sostituire qualcuno morto, come propostogli nel 1973 da De Martino, ma come ex presidente della Repubblica, oggi si direbbe "emerito, continuò a seguire e a sostenere lealmente Craxi. Che nell'autunno proprio di quell'anno egli definì orgogliosamente "statista" commentando la famosa notte di Sigonella, dove il presidente del Consiglio, pur fra le proteste del suo ministro della Difesa Giovanni Spadolini, negò per telefono all'esagitato presidente americano Ronald Reagan il permesso di prendere con le buone o con le cattive i dirottatori palestinesi della motonave italiana Achille Lauro, con più di duecento passeggeri a bordo. Fra i quali purtroppo c'era stato un cittadino americano, ebreo e paralitico, ucciso dai terroristi e buttato a mare con la sua carrozzella.Quei dirottatori, con la mediazione del leader palestinese Arafat e del governo egiziano, nelle cui acque era finita ormeggiata la nave, si erano ritirati in cambio del loro trasferimento in Tunisia, dove si trovava il quartiere generale di Arafat. Ma l'aereo egiziano che trasportava il commando palestinese, e il capo provvisto di passaporto diplomatico tunisino, fu dirottato dai caccia americani e costretto ad atterrare a Sigonella, dove erano già pronte forze speciali statunitensi per prelevarne i passeggeri. Craxi fece schierare a loro volta i Carabinieri italiani per impedire l'operazione. E spiegò a Reagan, fra qualche pasticcio combinato dal traduttore Michael Ledeen, che i dirottatori della nave, una volta in Italia, sarebbero stati qui processati, come avvenne. E come poi Reagan ammise che fosse giusto, prima inviando una lettera a "Dear Bettino", scritto a mano, e infine ricevendolo con tutti gli onori e la massima cordialità alla Casa Bianca, ben memore del contributo decisivo dato dallo stesso Craxi al riarmo missilistico delle basi della Nato in Europa, fra le quali quella siciliana di Comiso. Un riarmo che avrebbe peraltro contribuito al collasso dell'Unione Sovietica, che non si rassegnava a perdere il vantaggio acquisito con gli SS 20 schierati nelle basi del Patto di Varsavia contro le capitali dell'Europa occidentale.Eppure, a distanza di 31 anni da quella notte, quando Sigonella è tornata sulle prime pagine dei giornali italiani per l'uso che si potrà fare delle sue piste per gli aerei americani impegnati a bombardare le postazioni del Califfato nero in Libia, c'è stato un superstite della squadra politica di Spadolini, Domenico Cacopardo, che ha liquidato come "un'infamia" quella pagina di storia, espressione, secondo lui, dell'Italia «doppiogiochista», in Medio Oriente, «dei Moro, Andreotti e Craxi».A parte il fatto che Moro nel 1985 era morto già da sette anni, e di che morte, c'è da chiedersi se l'ex magistrato Cacopardo sappia veramente il significato della parola "infamia". Pertini l'avrebbe mandato a quel posto, giustamente. Così come dubito che al Quirinale egli avrebbe consentito negli anni di Mani pulite, pur sensibile com'era ai temi della moralità pubblica, lo sconfinamento di tanta parte della magistratura. Ne avrebbe probabilmente censurato gli eccessi, come durante la presidenza ne aveva elogiato l'impegno nella lotta al terrorismo, quando al povero Pertini successe di partecipare a troppi funerali delle vittime degli anni di piombo. Memorabile fu l'effetto, ai fini della mobilitazione pubblica, della presenza di Pertini nel 1979 nella sua Genova, dove le brigate rosse avevano ucciso il coraggioso operaio e sindacalista Guido Rossa, che aveva scoperto e denunciato la loro infiltrazione nello stabilimento dell'Italsider dove lavorava.