Il 1968 è stato l’anno di svolta nella storia del dopoguerra, in tutto l’Occidente, ma anche ad Est. In questi giorni sono usciti diversi articoli su vari giornali ( soprattutto sui giornali di destra) nei quali si chiede di rinunciare alle commemorazioni. Benissimo, rinunciamo alle commemorazioni, ma non vedo proprio perché non dovremmo cogliere l’occasione del cinquantesimo anniversario per tornare a ragionare su quell’anno cruciale, che con la sua intensità sociale e politica ha modificato il percorso della storia. È un anno che non ha eguali nella seconda metà del novecento. Non ho mai capito perché, almeno da un po’ di tempo, l’idea di parlare di storia, e soprattutto del nostro recente passato, viene vista come una noiosa strampalatezza di un pugno di nostalgici. Penso che sia esattamente il contrario: la voglia di dimenticare i fatti che hanno influito sulle nostre vite - che hanno cambiato cultura, abitudini, modo di pensare e di agire - è un desiderio un po’ da cretini. Ed è forse una delle ragioni di un certo decadimento della nostra intellettualità, che chiunque avverte.

Il 1968 è stato un anno specialissimo per tre ragioni.

La prima è l’ampiezza della rivolta che si è sviluppata in quell’anno contro le classi dirigenti e il sistema. Il ‘ 68 travolse gli Stati Uniti d’America, squassò l’Europa occidentale democratica, ma ebbe delle ripercussioni eccezionali anche nel mondo comunista e persino nei paesi autoritari di destra, come la Spagna, il Portogallo e alcuni paesi dell’America Latina.

La seconda ragione è il carattere generazionale della rivolta, che non solo non fu un limite ma, al contrario, moltiplicò la potenza del fenomeno, proiettandolo nel futuro.

La terza ragione è lo “spirito” originario del '68, che poi negli anni seguenti si frantumò, in parte si ribaltò, comunque si spezzettò in mille rivoli, che portarono su sponde anche molto lontane. Lo “spirito” originario del '68 è stato la contestazione delle gerarchie, e dunque del meccanismo essenziale che aveva governato il mondo fino a quel momento, e che regolava il potere, la distribuzione della ricchezza, i rapporti tra uomini e donne, la religione, la famiglia, la scuola, il sapere. La forza del ‘68 non risiedeva tanto nella improvvisa violenza della sua azione, e della sua contestazione, ma nella potenza rivoluzionaria di quel messaggio, che era qualcosa di molto più complesso delle vecchie rivendicazioni anarchiche. Ci sono migliaia di slogan del '68. Molto diversi tra loro. Alcuni truculenti. ( Ne ricordo uno che gridavamo spesso ai cortei: “È ora di giocare col sangue dei borghesi…”). Ma il vero slogan che riassume l’anima di quella rivolta è lo slogan più famoso del maggio francese: «E vietato vietare». Il ‘68 inizia come grandioso fenomeno libertario. Poi si piega su se stesso, si aggroviglia, e in moltissime sue espressioni ha un rinculo stalinista e autoritario. Se però immaginiamo il ‘68 solo come fenomeno di violenza politica e come anticamera della lotta armata, capiamo pochissimo di quello che è successo e di perché il ‘68 ha dilagato in territori molto lontani dal gruppetto di studenti e di intellettuali che lo innescò. Fino a coinvolgere, ad appassionare, e talvolta a travolgere pezzi molto vasti di classe operaia ma anche di borghesia moderata. Gli effetti più clamorosi del '68 furono lo spostamento molto sensibile del senso comune conservatore, che ruppe gli argini, perse i punti di riferimento e le paure.

Fu un fenomeno populista? Certamente lo fu, ma quello sessantottino è un tipo di populismo di segno opposto a quello che conosciamo oggi.

Oggi il populismo è una declinazione del qualunquismo, dell’antipolitica, della paura, anche dell’ignoranza. Non possiede nessuno spessore ideale, è chiuso in se stesso è rancoroso. Allora fu un fenomeno opposto: impegnato, molto politico, colto, con una componente fortissima - qui in Italia - di tipo cattolico, influenzata dalle grandi novità del Concilio. In comune con il populismo di oggi ha solo la domanda di rottura. Le risposte a questa domanda, però, sono opposte. Così come, in politica, sono opposte le spinte rivoluzionarie e quelle reazionarie.

Il 1968 nasce sicuramente in America. Dove la rivolta dei neri e degli hippy era iniziata diversi anni prima. Aveva incendiato le città, i ghetti, i campus universi- tari. Aveva spinto possentemente a sinistra il kennedismo, che era nato come proposta di leggero e moderatissimo cambiamento e invece, con Bob Kennedy, aveva finito per avvicinarsi moltissimo al punto della rivolta.

E però, curiosamente, se andiamo a controllare le cronologie, ci accorgiamo che il primo atto storico del sessantotto avviene all’Est. Precisamente il 5 gennaio ( giusto ieri era il cinquantenario) con l’elezione di Alexander Dubcek alla segreteria del partito comunista cecoslovacco. Dubcek, 46 anni, intellettuale raffinato ma con un lungo passato di funzionario di partito, aveva riunito intorno a sé un gruppo di giovani intellettuali quarantenni ed era riuscito a scalzare dal potere il vecchio Antonio Novotny, uomo legatissimo a Mosca. Iniziò così, in pieno inverno, la Primavera di Praga, e cioè un periodo di riforme e di grande mobilitazione politica, con un vastissimo sostegno popolare, che fu il più robusto e organico tentativo di ristrutturazione del socialismo. Dubcek, spinto dal vento libertario del sessantotto, introdusse il concetto di libertà come valore fondante del progetto socialista. E questa non era una modifica, o un aggiustamento: era il ribaltamento del castello ideologico costruito da Lenin in poi. Dubcek si convinse che i valori di libertà ed eguaglianza non sono valori in competizione ma possono integrarsi perfettamente.

E’ impossibile immaginare oggi cosa sarebbe successo se il tentativo di Dubcek non fosse stato represso in modo brutale, e in parte inaspettato, dalle forze armate sovietiche. Cosa avrebbe portato, all’umanità, una competizione equilibrata tra capitalismo rooseveltiano e socialismo democratico. Non lo sapremo mai.

Il tentativo durò meno di otto mesi. La notte tra il 20 e il 21 agosto le truppe del patto di Varsavia entrarono a Praga. Dubcek, insieme a Ludvick Svoboda, che era il presidente della Repubblica, fu portato a Mosca per chiarimenti, e poi deposto. Lo mandarono a fare l’impiegato in un ufficio, e riemerse solo dopo la caduta del Muro di Berlino.

Ho avuto la fortuna di conoscerlo, nel 1990. Era in visita in Italia e volle venire a cena con noi giornalisti dell’Unità, che lo avevamo intervistato un paio d’anni prima, quando era ancora in semi- clandestinità. Serio, timido, ma anche molto spiritoso e persino autoironico. Mi ricordo che ci raccontò una barzelletta forse non spiritosissima in assoluto, ma devastante perché raccontata da lui. La sintetizzo molto, perché era lunghissima: C’è una coppia che dorme a Praga la notte del 20 agosto. A un certo punto lei si sveglia e chiama il marito. Gli dice: “Ehi, cos’è questo sferragliare di camionette qui sotto casa? ”. “Niente”, risponde lui, “sarà il mercato, ora dormi! ”. Dopo mezz’ora lei lo sveglia ancora: “Ehi, sento dei colpi di cannone.. ”. Lui di nuovo la tranquillizza: “Sono tuoni, amore, dormi.. ”. Alle quattro del mattino la signora si affaccia alla finestra e grida: “Ci sono i carrarmati qui sotto, ci hanno invaso! ”. Lui resta tranquillo: “non aver paura, poi verranno i sovietici e ci libererano…”. E già, l’invasione fu una sorpresa. Non solo Dubceck era convinto che nel nuovo clima del '68 i sovietici non avrebbero osato. Anche perché, nonostante tutto, Dubceck considerava i sovietici degli amici. Invece l’invasione ci fu e gelò il mondo.

E’ vero che il '68 fu un fenomeno essenzialmente occidentale. Ma se dovessimo mettere due date al suo inizio e alla sua fine, e cioè alla parabola del sogno sessantottino, prima che il '68 si trasformasse, si incattivisse e in parte degenerasse, le date sono quelle lì di Dubcek: 5 gennaio e 20 agosto. E’ lì, quella notte, che finisce il sogno. Non solo dei cecoslovacchi, ma di tutti. Cioè di tutti quelli - americani, russi, polacchi, europei…- che avevano sperato nella riformabilità del potere. L’impermeabilità del socialismo alle riforme era lì a dimostrare questo: il potere non accetta di essere messo in discussione, tantomeno di mettersi in discussione da solo.

In Italia il '68 inizia invece con un fatto tragico e che non ha molto a vedere, almeno all’inizio, con la politica: il terremoto del Belice. Avvenne nella notte tra il 14 e il 15 gennaio, provocò circa 300 morti e rase al suolo decine di paesi della provincia di Trapani e di Agrigento. Gibellina scomparve.

Ma adesso procediamo con la cadenza della cronologia. In ordine sparso 31 gennaio. In Vietnam inizia l’offensiva del Tet. Il Tet è il capodanno vietnamita. I vietcong e l’esercito del Nord, guidato dal mitico generale Nguyen Giap ( che 15 anni prima aveva sbaragliato i francesi a Dien Bien Phu) attaccano tutte le principali città del Sud Vietnam. Muovono 800 mila uomini armati. E’ un successo militare clamoroso. Americani e Sudvietnamiti, sgomenti, reagiscono con ferocia. Il primo marzo, a Saigon, un generale sudvietnamita giustizia per strada, davanti al fotografo, un guerrigliero vietcong. La foto diventa famosissima.

1 marzo. E’ la vera e propria data d’inizio del 68 italiano. La battaglia di valle Giulia. Gli studenti attaccano la polizia che presidia la facoltà di Architettura, a Roma. Inizia un pomeriggio di fuoco. La polizia non si aspetta l’iniziativa spregiudicata e per molte ore non riesce a contenere la furia degli studenti. Guidati da Oreste Scalzone, da Sergio Petruccioli, da Massimiliano Fuksas, da Franco Russo. E con tanti ragazzini che non hanno nemmeno 18 anni, tra i quali i fotografi immortalano Giuliano Ferrara, figlio di Maurizio, direttore dell’Unità.

16 marzo. Una pattuglia di militanti del Msi, guidati da Giorgio Almirante, tentano di attaccare la facoltà di lettere, occupata dai “rossi”. Vengono messi in fuga, si rifugiano a Giurisprudenza, si barricano e tirano dal quarto piano un banco sui ragazzi che assediano la facoltà. Il banco prende in pieno il leader degli studenti, Oreste Scalzone, che è ridotto in fin di vita ( si salverà ma porterà i postumi della botta per tutta la vita).

Lo stesso giorno gli americani compiono in Vietnam l’azione più orrenda di tutta la guerra. Un gruppetto di marines, guidati da un certo tenente Calley, rade al suolo un piccolo paese ( My Lai) e inizia a torturare e ad uccidere, uno ad uno, tutti gli abitanti. Ne manda al creatore 450, poi, all’improvviso, irrompe sulla scena un elicottero guidato da un giovane sottufficiale americano molto coraggioso. Si chiama Hugh Thompson. Atterra, imbraccia un bazooka e si frappone tra i marines e i vietnamiti. Punta il tenente Calley e gli dice: o vi ritirate o ti ammazzo. La spunta. salva un cen- tinaio di superstiti. La strage però viene nascosta per due anni, poi la scopre un giornalista dell’Associated Press. C’è un processo. Calley si prende l’ergastolo ma Nixon lo grazia.

4 aprile. A Memphis, in Tennessee, dove era andato per tenere un comizio, viene abbattuto con una fucilata Martin Luther King, il capo della rivolta pacifica nera. Tre anni prima era stato ucciso, a New York, Malcolm X, il capo della rivolta nera violenta. La morte di King scatena un’ondata di violenza nei ghetti. Molte decine di morti.

11 aprile. Dopo King è un’altro leader del ‘ 68 a prendersi una revolverata: Rudy Ducke. E’ il capo degli studenti tedeschi. E’ un agitatore, un combattente, ma anche un intellettuale molto sofisticato. Gli sparano alla testa. Si salva, ma resta molte settimane tra la vita e la morte. Non si riprenderà mai del tutto, e morirà dopo dieci anni, per i postumi delle ferite.

Il 10 maggio parte la Francia. E il sessantotto raggiunge l’apice. Occupata la Sorbona. Scontri fino a notte nel quartiere latino.

13 maggio: un corteo immenso di studenti invade Parigi. Ci sono pure gli operai. Il movimento è guidato da un ragazzetto franco- tedesco, di appena 20 anni, che si chiama Daniel Cohn Bendit. Il ragazzo, Dany il rosso, fa tremare De Gaulle, il gigantesco De Gaulle, e fa temere che la rivoluzione sia davvero alle porte.

Il 5 giugno a Los Angeles viene ucciso Bob Kennedy. Stava per festeggiare il successo alle primarie della California. Era difficile che ottenesse la nomination, perché era partito troppo tardi, ma qualche speranza c’era. Kennedy ormai era diventato uno dei leader mondiali del 68, se avesse vinto, e avesse poi battuto Nixon, chissà come sarebbe andata la storia del mondo. Invece fu ucciso da un ragazzetto arabo di 24 anni. Che sta ancora in galera. Si chiama Shiran Shiran.

Del 20 agosto abbiamo già parlato, con la mazzata di Breznev e la fine della primavera di Praga.

Il 2 ottobre a città del Messico ancora gli studenti in piazza. La polizia spara in piazza delle Tre Culture, ne uccide cento. Un massacro che scuote il mondo, che ha gli occhi puntati sul Messico perché lì stanno per iniziare le Olimpiadi. Negli scontri resta ferita gravemente la giornalista italiana Oriana Fallaci.

13 ottobre. A Città del Messico iniziano le Olimpiadi. In un clima cupo e di conflitto.

17 ottobre. Tommie Smith, atleta nero americano, vince la medaglia d’oro sui 200 metri piani. Terzo arriva John Carlos, anche lui afroamericano. I due salgono sul podio della premiazione e alzano al cielo il pugno con un guanto nero. E’ il saluto dei Black Panther. Tutte le televisioni del mondo trasmettono questa scena. Nei quartieri neri americani è il delirio di entusiasmo.

Il 5 Novembre Richard Nixon viene eletto presidente degli Stati Uniti. Ha sconfitto Hubert Humphrey, vicepresidente uscente e rappresentate molto moderato del partito democratico. La Casa Bianca, dopo 8 anni, torna ai repubblicani. Simbolicamente è una vittoria della restaurazione. In realtà negli Usa non cambia molto. Nixon è un falco in politica estera e una colomba in politica interna. Come Lyndon Johnson, il suo predecessore che ha lasciato le penne in Vietnam. La vera svolta conservatrice, in America, avverrà solo 12 anni dopo, con Ronald Reagan.

2 dicembre. Ancora sangue in Italia, Stavolta ad Avola, Sicilia. La polizia spara sui contadini che occupano le campagne. Due morti, molti feriti, molta rabbia, molti arresti. Manifestazioni di protesta in tutt’Italia.

31 dicembre. Il ‘68 se ne va con un’altra sparatoria. Alla Bussola, night club di Viareggio, gli studenti attaccano lanciando uova e pomodori sulle pellicce di quelli che festeggiano ( come era successo tre settimane prima alla Scala di Milano). La polizia interviene. Si scatena la guerriglia. Tra gli studenti c’è il leader di Lotta Continua, Adriano Sofri, e c’è anche uno studentello diciottenne della Normale di Pisa, che si chiama Massimo D’Alema. La polizia spara di nuovo. Un ragazzo di 17 anni, Soriano Ceccanti, è colpito alla schiena. Ancora oggi, Soriano sta in carrozzella, è rimasto paralizzato.

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