La sola cosa che avevano in comune era la reciproca ostilità, una sensazione condivisa di estraneità totale, una punta di disgusto ricambiata senza alcuna cordialità. A quarant’anni di distanza ancora non si capisce bene chi prese la decisione sciagurata di spedire Luciano Lama, segretario della Cgil, in mezzo all’università di Roma occupata da un Movimento che il Pci considerava a un passo dal fascismo conclamato e che avrebbe visto il Pci e il sindacato come nemici assoluti anche senza le carinerie che l’Unità elargiva a getto quotidiano. Fu una decisione stupida ancor più provocatoria, e tanto inspiegabile che poi, per anni, Cgil, Federazione romana e Sezione universitaria del Pci si sono rimpallati la responsabilità della brillante trovata.

Non poteva che finire malissimo: fu chiaro da subito. Il Movimento si preparò all’indesiderato appuntamento con una di quelle assemblee fluviali ed estenuanti che erano all’epoca merce comune. Ore e ore passate nell’aula I di Lettere, dal primo pomeriggio del 16 febbraio sino a notte inoltrata, accumulando proposte per poi confutarle, difendendo a spada tratta linee di condotte alternative ma che tutti, in fondo, sapevano destinate a essere comunque travolte dagli eventi. Quando uno dei principali leader dell’ala dura di Autonomia, esasperato, prese alla fine la parola per chiedere: «Tutto bene, ok. Ma i bastoni dove li mettiamo?» la sterzata fu accolta con sollievo generale. Finalmente la verità. Non significa che la scelta del Movimento fosse lo scontro fisico. Se nessuno riteneva che si dovesse accettare l’offerta degli organizzatori del comizio, disposti a far parlare dopo il super sindacalista anche un «esponente del movimento studentesco», la linea maggioritaria era favorevole a una contestazione morbida e ironica, a base di sberleffi, non di mazzate. Ma tutti, anche i più creativi tra gli indiani metropolitani, sapevano benissimo che il rischio che le cose prendessero un’altra piega c’era tutto. Chiedersi dove mettere i bastoni non era segno di estremismo e di propensione alla violenza. Era semplice realismo.

Non poteva che andare male, ma andò anche peggio del previsto. Anche questo fu chiaro sin dal primissimo mattino, quando i militanti del servizio d’ordine del Pci e i funzionari del sindacato cominciarono ad affluire alla Sapienza, anticipando di un’oretta il segretario. Arrivavano con le facce tirate di chi marcia in territorio nemico e si aspetta l’agguato dietro ogni angolo. Sembrava l’avessero fatto apposta, e probabilmente era proprio così, a rimarcare nei particolari la distanza, anzi la contrapposizione antropologica, l’antagonismo anche estetico, rispetto ai “diciannovisti “che da 15 giorni occupavano l’università di Roma. Gli stessi che una decina di giorni prima avevano sottoposto il cronista del “quotidiano fondato da Antonio Gramsci” a un beffardo processo popolare. Capo d’accusa: “Affermazioni deliranti”. Sentenza, passibile di immediata esecuzione: “Espulsione a vita dall’università”. In quelle prime decine di minute, mentre il servizio d’ordine del Pci montava un palco improvvisato e la tensione s’impennava assai più del palchetto, il popolo del Pci e quello del Movimento si guardavano in silenzio, scoprendo quasi con sorpresa una differenza ormai totale, verificando la profondità di un abisso che non era più colmabile. Le scritte degli indiani, fatte nella notte, accoglievano i funzionari del partito che sosteneva con la sua astensione il governo Andreotti e quelli del sindacato che chiedeva agli operai di sacrificarsi in nome dell’ “interesse generale”. “Nessuno L’ama”, “I Lama stanno in Tibet”. I comunisti le degnavano appena di uno sguardo ma bruciavano d’indignazione: come ci si poteva permettere una simile mancanza di rispetto? Gli insolenti guardavano i sindacalisti con disprezzo anche maggiore, o forse con un’alterità che non permetteva più neppure il disprezzo.

Quella gente, con le loro facce torve, la mascelle serrate, le divise d’ordinanza da burocrati così volutamente opposte a quelle altrettanto d’ordinanza ma variopinte e fantasiose del Movimento, non la si poteva più bollare, come si era fatto dal ‘ 68 in poi, come semplicemente “revisionista”, come compagni che miravano allo stesso obiettivo, una mondo diverso e più giusto, ma per una strada sbagliata, arrendevole, genuflessa, sconfitta in partenza. Quello ormai era direttamente il nemico in prima persona. Era, nel momento storico dato, il sostegno e il principale puntello dell’assetto di cui persino “i revisionisti” erano comunque stati considerati critici pur se non abbastanza severi.

Gli slogan iniziarono ancora prima che Luciano Lama cominciasse a parlare. La derisione surreale e un po’ demenziale, “Fatti una pera, Luciano fatti una pera” sul tono di Guantanamera, bruciava forse anche più della critica politica, dell’accusa di tradimento: “Lama ti prego non andare via: vogliamo ancora tanta polizia”. Tra il palco, circondato dal servizio d’ordine del Partito, e la massa di minuto in minuto più folta dei ragazzi di Movimento, sotto la scalinata di Lettere, non c’erano che pochi metri. “Luciano” era terreo al momento dell’arrivo nella zona nemica, attorniato dall’immancabile codazzo di funzionari e dal servizio d’ordine, quasi una replica caricaturale delle immagini che dall’Urss raccontavano in ogni Tg la mesta fine dell’Ottobre rosso. Lo era ancora di più quando infine prese la parola, probabilmente già consapevole dello sbaglio commesso, per pronunciare un discorso che non sarebbe mai arrivato alla fine e del quale comunque si persero anche le prime parole, subissate dal fragore dei fischi, dagli slogan strillati a voce sempre più alta.

A determinare una deflagrazione comunque inevitabile furono i palloncini. Tanti, colorati e innocui. L’arma scelta dagli indiani per marcare la distanza tra il grigiore plumbeo di chi chiedeva ai sacrificati di sacrificarsi sempre più e la festosità disperata del Movimento. Il quadrato intorno al palco rispose con i sassi, forse per esasperazione, forse perché costretti dalla loro stessa favola, che li voleva impegnati a fronteggiare una forma moderna e camuffata di fascismo.

Nulla come quel discorso di Luciano Lama, segretario della Cgil, coperto dagli slogan ostili, pronunciato solo a uso delle persone che occupavano il palco mentre di fronte la sassaiola diventava sempre più fitta, racconta il ‘ 77. Più delle autoblindo spedite da Cossiga a Bologna meno di un mese dopo. Più delle istantanee che concentrano l’attenzione sulle armi in piazza, e così facendo falsano la storia. Più dei girotondi che trasmettono l’immagine di una gioiosità che era mimata e copriva invece un malessere profondissimo.

Lama chiuse di corsa il suo discorso, troncandolo di netto, quando si rese conto che la situazione era definitivamente sfuggita di controllo. Fece in tempo ad abbandonare il palco e il campo un attimo prima che quei bastoni ai quali si era alluso la sera precedente entrassero in azione. Una sola carica, decisa e travolgente, non preordinata, forse neppure decisa da nessuno. Spontanea. Il palco venne giù come fosse di cartapesta, e in un certo senso lo era davvero. Poche ore dopo la polizia arrivò in forze a sgombrare l’università. Giusto per confermare che nulla di quanto era stato rinfacciato a Lama e tramite lui all’intero Movimento operaio istituzionale poche ore prima era infondato.

Non fu tanto il giudizio politico a tracciare allora nel Movimento una linea di demarcazione che resiste e ancora separa gli ormai incanutiti. Fu una questione di sentimenti prima che di analisi politica. Di emozioni, non di mozioni. Per qualcuno, soprattutto per chi militava o dirigeva gli ex gruppi impegnati nel tentativo votato a certo fallimento di trasformarsi in partitini, si trattò di una tragedia, di una lacerazione drammatica che avrebbe dovuto essere a ogni costo evitata e che andava adesso ricucita quanto prima. Ancora oggi ricordano il 17 febbraio 1977 come un giorno di lutto. Per molti altri fu il momento di massima gioia, il singolo episodio più liberatorio dell’intero decennio rosso, e tale è rimasto nei decenni.

Nell’assalto al palco del sindacalista dei sacrifici non c’era solo il rifiuto della linea decisa da un Pci che abboccava all’amo teso dal potere democristiano, quello illustrato in anticipo da Moro e Andreotti al dubbioso ambasciatore americano Gardner. In sintesi: «Dobbiamo prendere misure che gli operai non accetterebbero ma che grazie al sostegno del Pci invece passeranno. Poi però proprio l’aver sostenuto quelle misure provocherà un crollo di consensi a favore del Pci». Strategia mirabile che avrebbe colto tutti i risultati previsti nel giro di due anni. Non c’era neppure soltanto il compimento di una divaricazione che dal 1968 in poi si era fatta sempre più profonda e che aveva in realtà già toccato il punto di non ritorno quando, nel 1970, una serie di articoli dell’Unità denunciò Adriano Sofri per essere entrato illegalmente alla Fiat comiziando, chiedendone di fatto un arresto che arrivò puntuale e chiuse il leader di Lotta continua in carcere per mesi.

Tutto questo certamente pesava, ma ancor più a fondo s’agitava un rifiuto globale di quel che il movimento comunista era stato sino a quel momento. Della sua passione per l’ordine. Del suo culto della disciplina, sia pur ribattezzata “disciplina di partito”. Della sua ipocrisia tattica camuffata da ardimentose piroette strategiche. Del suo culto del partito e di chi nel partito comandava. Della sua religione dell’obbedienza. Della sua abitudine a colpire il popolo in nome del popolo. Della sua struttura plumbea. Del suo grigiore costitutivo. Nelle sue componenti più innovative e nei suoi momenti migliori, quello del ‘ 77 è stato soprattutto un Movimento contro il “comunismo reale”. Il primo e sinora l’unico che abbia provato ad aggredire non gli orpelli ma il cuore stesso degli errori commessi dal movimento comunista non in nome della sua revisione e neppure in quello di un ritorno alla sua purezza, ma in nome della capacità di evolversi e cambiare imparando dagli errori senza rinnegare le radici. Per questo la cacciata di Lama, che della mesta e gelida realtà del movimento comunista era emblema, è ancora oggi la data chiave di quell’anno distante. E forse per questo è così difficile consegnare il ‘ 77 alla nostalgia e alla storia.