A Roma, via Giulia, sede della Direzione nazionale antimafia. Un uomo varca il portone della Superprocura accompagnato dalla Guardia di Finanza. È il novembre del 2003 e vuole parlare con Pier Luigi Vigna, il capo della Dna. Si chiama Vittorio Crescentini, è un faccendiere, e dice di avere notizie importanti da riferire. Ma non si presenta davanti ai magistrati in veste di informatore, come pure era capitato in altre occasioni, questa volta dice di essere un mediatore, un messaggero per conto di Bernardo Provenzano. Ma l’uomo pone subito una condizione: non dirà neanche una parola in presenza di magistrati siciliani. Vigna accetta di ascoltarlo e chiede ai sostituti Vincenzo Macrì e Alberto Cisterna, entrambi calabresi, di assistere al colloquio investigativo. Provenzano è latitante da più di 40 anni, e adesso, vecchio e stanco, vorrebbe aprire «un tavolo di accomodamento» per trattare la resa. Perché un capo, anche se non più operativo, non si arrende incondizionatamente. E l’intermediario arrivato in Via Giulia mette subito in chiaro le cose: per consegnarsi, il boss pretende una buona uscita da due milioni di euro e un mese di riserbo dal momento dell’arresto. Un periodo di tempo utile a fornire elementi investigativi agli inquirenti lontano dal clamore mediatico. Gli inquirenti lo ascoltano con attenzione, sono convinti che Crescentini non sia un millantatore, perché se qualcuno si presenta in Dna dicendo di avere notizie su Provenzano non può essere un impostore, è la convinzione dei magistrati. Il faccendiere, poi, fornisce anche qualche elemento sulla latitanza del ricercato numero uno: sarebbe nascosto nel Lazio, in un luogo non meglio definito. Per Pier Luigi Vigna la cattura di Provenzano sarebbe la ciliegina sulla torta di una carriere già brillante. Nel 2003 il capo dell’Antimafia è a un passo dalla pensione e non vorrebbe lasciarsi sfuggire l’occasione di chiudere col botto. Ma prima deve superare l’ostacolo più grosso: la richiesta di denaro. La palla deve passare ad altre autorità, bisogna informare subito il ministero dell’Interno della faccenda. «Mi pare di ricordare che Vigna disse che avrebbe informato il ministero dell’Interno e per correttezza anche il procuratore della Repubblica di Palermo (che all’epoca era Piero Grasso, l’attuale presidente del Senato, ndr) », racconterà quasi dieci anni dopo Vincenzo Macrì, uno dei magistrati presenti agli incontri con il mediatore. «Non era compito del nostro ufficio stabilire tempi e modi di un eventuale accordo. Non so con chi parlò Vigna. So che allora il capo del Sismi era Niccolò Pollari. E che i Servizi segreti diedero la loro disponibilità in linea di massima a reperire il denaro».La trattativa, dunque, si complica. Il faccendiere dice che si rifarà vivo ma passano altri otto mesi senza ricevere più notizie del boss. Vittorio Crescentini ritorna in Via Giulia nel luglio del 2004, pochi giorni prima del 71esimo compleanno di Pier Luigi Vigna, che festeggerà il primo agosto. Il secondo colloquio investigativo si conclude come il primo. È ancora un incontro interlocutorio, il messaggero non fa altro che confermare le richieste già avanzate prima, ma aggiunge un elemento: incontrare il boss è diventato più complicato anche per lui. Scopriremo solo dopo che in quel periodo il latitante corleonese non godeva di ottima salute, tanto da essere sottoposto a un intervento chirurgico in un ospedale di Marsiglia, come documentato nel 2005 dalla procura di Palermo. Ma 71 anni, per Vigna, non sono solo candeline da spegnere su una torna, significano anche un’altra ricorrenza più amara: la pensione. E nonostante una legge ad hoc (in realtà concepita per impedire a Gian Carlo Caselli di andare alle guida della Dna) conceda a Procuratore nazionale un anno di proroga, fino al primo agosto del 2005, Vigna non riuscirà a portare a termine l’arresto.L’ultimo colloquio investigativo accertato con Vittorio Crescentini, infatti, risale al novembre del 2005. Alla Direzione nazionale antimafia c’è un nuovo capo: Piero Grasso, appena arrivato da Palermo. Spetta a lui gestire l’ultimo contatto con l’uomo che dice di essere stato delegato da Provenzano. Il nuovo procuratore chiede a Macrì e Cisterna, i due pm che avevano già seguito il caso, di partecipare all’incontro. Ma Grasso, a differenza del suo predecessore, non si fida molto del faccendiere, è convinto che sia un «millantatore». E chiede all’intermediario di fornire una prova biologica del boss latitante, come racconterà anni dopo il magistrato siciliano nel corso di un’audizione al Csm: «Quando ero procuratore a Palermo, avevamo fatto un’indagine sulla presenza di Provenzano a Marsiglia», spiega Grasso. «Eravamo riusciti a ottenere un frammento di un reperto medico sanitario». In altre parole, i magistrati avevano in mano il dna del boss corleonese. «Quindi essendo in possesso di quel reperto, a colui che diceva di essere in contatto con il latitante Provenzano, dissi di farci avere qualcosa - un fazzoletto, un bicchiere, un qualcosa... Insomma, non potendo catturare tutto il latitante ne avevamo catturato un pezzetto. Per quanto ne so questo è l’ultimo incontro con l’intermediario». Il boss, ancora tutto intero, sarà catturato pochi mesi dopo, nel marzo del 2006, dal procuratore di Palermo Giuseppe Pignatone e dal capo della Squadra mobile Renato Cortese.