Ci sono diversi modi per sciogliere il conflitto tra politica e giustizia. Ma uno per Luciano Violante viene prima di tutto ed è il recupero dell’etica pubblica. «Della morale come principio condiviso, non come contenzioso moralistico. E dipende dai partiti», avverte l’ex presidente della Camera, «devono ritrovarla loro. In modo da evitare che tutto finisca per doversi dirimere con il codice penale».

Violante non fa sfoggio di profezie avverate. Si limita a vantare una cosa soltanto: «Sono cinquant’anni che mi occupo di giustizia». Lo dice dopo essere stato interpellato sulle possibili colpe della sinistra. Sull’ipotesi che le fibrillazioni odierne siano il precipitato estremo delle troppe polemiche alimentate sulla giustizia nei primi anni Duemila, e soprattutto da parte degli allora Ds nei confronti del Cavaliere. «Le polemiche sulla giustizia non sono certo nate allora. È chiaro che il processo, o meglio la giustizia, è il luogo ultimo dove si definiscono i conflitti, quando la politica non è in grado di risolverli direttamente, si pensi all’Ilva: è inevitabile che la materia sia terreno di contesa».

Presidente, visto che sulla giustizia si realizza al massimo grado la tendenza della politica a legiferare per spot, non è che magari l’ordalia della prescrizione è così esasperata da poter innescare una redenzione, un saggio ritorno a un modo più razionale di discutere tra i partiti? Quando i governi durano poco è difficile aspirare a riforme di sistema. Spesso ci si limita a smontare quanto fatto dal governo precedente. Però, se si volesse agire in modo sistematico su processo penale e prescrizione, una via ci sarebbe.

Ecco: quale? Si dovrebbe partire da un’indagine conoscitiva, in Parlamento, sulle cause della così disomogenea fenomenologia della prescrizione. Ci sono sedi in cui i reati si prescrivono in gran numero, altre in cui il dato è irrilevante. Perché? Dipenderà anche dalla capacità organizzativa, da come funziona concretamente un ufficio di Procura o un Tribunale? Ecco, bisognerebbe prima conoscere le cause del più o meno efficace funzionamento dei singoli uffici.

L’avvocatura avanza una proposta simile, in particolare lo fa il presidente del Cnf Mascherin: prima la riforma del processo, poi un monitoraggio sui suoi effetti per valutare se davvero sia necessario intervenire sulla prescrizione. Sono d’accordo con questa proposta dell’avvocatura. Ma aggiungo: le due cose non sono alternative fra loro. Potrebbero andare in sequenza: prima la verifica delle cause ufficio per ufficio e poi una riforma da mettere alla prova.

L’ex vicepresidente dell’Anm Sangermano propone addirittura di rendere i dati sulla prescrizione decisivi per la carriera dei capi degli uffici. Sì, ma una simile riforma non ha neppure bisogno di legge ordinaria: basta una decisione del Consiglio superiore. Il punto è approfondire: sarebbe utile acquisire le relazioni dei procuratori generali presso le Corti d’appello sulle modalità di esercizio dell’azione penale, inviate, almeno così prevede la legge, al pg di Cassazione. Si dovrebbe evitare di decidere per sentito dire, e farlo sulla base di una conoscenza reale dei problemi. Qualche volta invece prevale il pregiudizio ideologico.

Nel caso dei 5 stelle ci si è innamorati dell’idea che la prescrizione sia lo scudo fatale della da loro odiata casta. È chiaro che chi è ben assistito può legittimamente utilizzare al meglio tutti gli strumenti del processo. Ma non penso che la prescrizione sia la madre di tutte le battaglie per una riforma del processo penale.

E qual è invece? Decidere dopo aver conosciuto concretamente lo stato delle cose.

Solo? No. Io credo che l’accertamento giudiziario e il codice penale non possano essere l’unica tavola sulla quale si regge il sistema economico, politico e sociale. La giurisdizione e il codice penale distinguono il lecito dall’illecito, non il bene dal male. Abbiamo fatto del codice penale la magna charta della politica. Ma l’etica dei partiti è un’altra cosa e non può essere definita da un processo. Non sempre quanto è giuridicamente illecito è anche moralmente e politicamente riprovevole.

Lo pensa dell’ex sindaco di Riace, per esempio? Eviterei personalizzazioni. Occorre recuperare l’anima dei partiti.

E perché è decisiva questa perdita dell’anima dei partiti? Perché le forze politiche si reggono, in maggioranza, su leadership solitarie e narcisistiche. L’etica pubblica nasce dalle comunità, non dai singoli. In quanto singolo, tanto per intenderci, neppure il Papa potrebbe da solo sostituirsi all’intera Chiesa. Aggiungo: le straordinarie leadership del passato erano tali perché designate dai partiti: Berlinguer, De Gasperi, Moro, Almirante. Adesso la dinamica tra comunità, codice morale e leader non esiste più. La debolezza del sistema viene da lì, e da lì viene il cieco affidarsi al codice penale. D’altronde, qualcosa doveva pur occupare lo spazio lasciato dai partiti e dai loro codici etici.

In una simile crisi, una legislazione più ragionevole sulla giustizia può venire dall’alleanza fra magistrati e avvocati Non escluderei un terzo soggetto: l’università. Oltre ai tecnici della prassi, come potremmo considerare magistrati e avvocati, io coinvolgerei anche i tecnici teorici, che possono offrire uno sguardo complessivo. Certo, l’avvocato può senz’altro assicurare un contributo nella formazione delle norme, altra cosa è il suo ruolo costituzionale e sociale di controllore del giudice e antagonista del pm.

In effetti l’avvocatura chiede un esplicito riconoscimento costituzionale del proprio ruolo anche per poter garantire, quale controparte tecnica della magistratura, l’indipendenza di quest’ultima. Va detto che l’evolversi della professione forense autorizza oggi a parlare di diverse tipologie di avvocature, talmente connotate sono le sue diverse specializzazioni. Comprendo come si possa comunque coltivare l’aspirazione a essere corpo omogeneo e con una soggettività unitaria. E posso dire di non vedere motivi ostativi nel riconoscere l’avvocato quale soggetto costituzionale. Ma adesso noi siano di fronte a una crisi di sistema relativa ad altro.

A una malattia della politica dunque. Ma a proposito: ci sono le condizioni anche di consenso perché Renzi possa condurre la sua battaglia garantista? Dovrebbe rispondere lui. Le forze piccole, qual è oggi il partito di Renzi, hanno spesso, come in questo caso, un peso parlamentare rilevante, decisivo, e scelgono terreni che possano garantire visibilità. D’altra parte, nel perdere di vista la realtà dei problemi, rispetto al processo penale e alla prescrizione, c’è un aspetto della cui rimozione si resta davvero sorpresi.

A quale si riferisce? Alle parti offese. Se i processi si trascinano all’infinito, le vittime vedono allontanarsi anche il diritto al risarcimento. Mentre la prescrizione può consentire di determinare l’esistenza del fatto in modo da potersi rivalere civilmente.

Senta Presidente, ma non è che l’ordalia sulla giustizia deriva un po’ anche dagli errori del centrosinistra negli anni Duemila? Le fibrillazioni sulla giustizia si sono sempre viste. È nella natura di una società conflittuale e di un sistema istituzionale caratterizzato da un policentrismo anarchico come i nostri. I conflitti sociali e politici devono essere risolti dalla politica, che è il sovrano. Ma se la politica non se ne occupa, lo scettro passa, inconsapevolmente, alla giurisdizione. Vedi, ripeto, il caso dell’Ilva.

Ma il sovrano della Prima Repubblica era quella comunità civile disprezzata con l’espressione “sistema dei partiti”? Forze politiche, anche contrapposte, sapevano mantenere i confini della propria responsabilità, senza farle scivolare sulle spalle della giurisdizione.