Siamo un paese che ama maltrattare quello che consideriamo Potere, che odia quelli che vengono definiti, con gergo sportivo e inadeguato, “vincenti”, solo perché occupano poltrone importanti, persino quando, come raramente accade in Italia, se le meritano. E infine amiamo i fallimenti altrui, perché soprattutto in questa penisola fa un rumore di inferno un albero che cade, ma nel frattempo foreste rigogliose crescono in silenzio, perché non fanno notizia.

Allora proviamo a fare un po’ di chiarezza sul regno di Antonio Campo Dall’Orto all’ombra del cavallo di Viale Mazzini, visto che molti lo giudicano come estensione renziana e quindi, in quanto tale, da macellare nel mattatoio del post referendum.

Intendiamoci, guidare un servizio pubblico pachidermico e ministeriale come la Rai, è un’impresa da titani, al limite dell’impossibilità, ci vuole un Achab pronto a giocarsi tutto e a non ricevere meriti. E così tutti a brandire il fallimento di Politics con un Semprini sabotato forse internamente e probabilmente vittima di una rivoluzione dell’informazione politica sognata ma poi non perseguita con coraggio da chi aveva puntato su di lui. Il punto è che mettendo la luce dei riflettori su quell’incidente, si dimenticano i numeri, primo valore, anche se non quello più importante, con cui provare a tracciare un bilancio. Pochi dicono, sottolineano ad esempio che ormai si contano con il lanternino le serate perse dalla Rai, mentre sono di gran lunga più frequenti i successi e i fiori all’occhiello.

Ovvio, parliamo anche di realtà in non rari casi già messe in cantiere in precedenza, ma che hanno trovato terreno fertile in un management che dopo un’inusuale e approfondita fase di studio ha deciso di puntare su format originali e risorse interne, provando a guardare all’esterno per prodotti di qualità e non con il sistema della pesca a strascico. Certo, risalta il lavoro di Rai3 con Daria Bignardi, che forte anche del rinsaldamento degli ascolti e dello share dei programmi di punta come Chi l’ha visto, ha ad esempio dato vita a un lavoro straordinario, 12 mini documentari, come Stato Civile che ha probabilmente cambiato, o ha iniziato a farlo, l’identità di una rete e dei suoi spettatori. Ma anche di prodotti più mainstream come la serie I Medici, degna della migliore produzione americana e capace di far passare, al pubblico più ostico e più vecchio, tessuti narrativi e contenutistici prima neanche sfiorati. C’è stata la volontà di non lasciare indietro chi dava al servizio pubblico il senso della sua definizione: capolavori come I dieci comandamenti di Domenico Iannacone o navi intrepide come Report ( con la capacità di puntare anche su una nuova conduzione in futuro, quella di Sigfrido Ranucci, raro esempio di promozione meritocratica), sono stati sostenuti, vicino a talenti puri corteggiati anche a dispetto di rischi sotto il profilo dei numeri.

Nemo, ad esempio, è programma importante per le innovazioni formali e comunicative, per la volontà di rivoluzionare ciò a cui siamo abituati: non lo ricorderemo come record di ascolti, ma è un mattone verso una tv altra che sicuramente, magari in una collocazione più protetta e di nicchia, troverà modo di farsi giustizia. Anche sulle individualità, la Rai di Campo Dall’Orto ha saputo andare oltre. Se è vero che Carlo Conti rimane il signore della tv di stato, con i suoi successi per over 60 e quel Sanremo che cresce costantemente ( e a parere di chi scrive piuttosto inspiegabilmente), capace di allargare il suo feudo anche a Radio Rai ( per fortuna la sua imprudente cancellazione di 610 è stata fermata dalla Rete), troviamo una RaiDue che con un format ben scritto e pensato ci ha mostrato un Mika showman e fuori finalmente dallo stereotipo del giurato bizzarro. Mika Sound non è solo un ottimo esperimento, ma un genere su cui lavorare.

Sul piano delle fiction a fianco alla Miriam Leone troppo sottovalutata a causa della sua bellezza ma dotata di un talento pari solo alla sua determinazione, troviamo l’ascesa meritata e incoraggiante di Chiara Francini. Da anni era evidente a molti quali capacità avesse, nella recitazione e nella commedia come nella comunicatività: Non dirlo al mio capo, che le ha dato una protagonista irresistibile e politicamente scorretta, inedita non solo per la Rai ma per la narrazione audiovisiva “femminile”, così come Purché finisca bene – Piccoli se- greti, grandi bugie sono due capisaldi di un modo alternativo e possibile di raccontare in tv la commedia moderna. E la sua coconduzione di Domenica In ha spolverato un format che da anni era in coma.

Sono suggestioni, che non rendono l’idea di un’analisi che dovrebbe essere più approfondita. Ma la Rai attuale ha deciso di pensare al suo pubblico, non vampirizzarlo. E in questo, è giusto raccontare della qualità con cui ha seguito le ultime Olimpiadi, sfruttando tutte le possibilità delle reti consorelle e ancora più della Rete, di come l’offerta sportiva abbia potuto contare su un broadcast che finalmente ha scoperto i device: smartphone, tablet, pc. Ha deciso di guardare oltre, provando a cercare di ringiovanire il proprio pubblico e ad alfabetizzare le altre generazioni. E RaiPlay, che non farà share, ma è serv izio pubblico allo stato puro oltre che il segno della volontà di non abdicare ai Netflix e alle offerte delle Pay Tv, con la possibilità di usufruirne direttamente nella tv, è un esempio brillante di un nuovo corso che non lascia, ma raddoppia. Alla faccia di un Rischiatutto soporifero: ma quanto è stato bello, invece, il Viaggio nel paese del Rischiatutto di Daniele Luchetti?

Insomma, la strada è ancora lunga, ma finalmente è quella giusta.