La prima donna presidente degli Stati Uniti è in Senato per affrontare la procedura di impeachment con l’accusa di essersi avvantaggiata nel voto per la Casa Bianca delle interferenze di una potenza straniera, tradizionalmente nemica degli Usa. È costretta a lasciare a metà l’interrogatorio davanti alla Commissione Giustizia perché un inopinato attacco di Pechino a una portaerei americana nel Mar della Cina ha appena provocato la morte di 24 marines.

Mollare al volo il consesso parlamentare che l’ha messa sotto accusa, e ovviamente senza poter dirne il motivo, rischia di esserle politicamente letale. Ma la presidente, che ha spalancato le porte della Casa Bianca davanti alla procedura attivata dal Congresso per destituirla, accettando lei stessa di essere interrogata “perché è legittimo che il parlamento faccia domande, ed è costituzionalmente corretto che l’amministrazione a quelle domande risponda”, ha un solo rovello: evitare un’escalation che porti a una guerra - che sarebbe potenzialmente nucleare- con la Cina.

Si tratta di una fiction, certo. E in un ambito, per stare alle serie tv, che è tutto il contrario di House of Cards: viene messa in scena una leadership forte, ma di tipo positivo. Una leadership politica femminile: che lavora non per stessa o per il proprio prestigio ma per la comunità che l’ha eletta nel ruolo di massimo potere, una leadership che esercita appieno l’accountability, il dovere di render conto. Si tratta, per la precisione, dell’ultima puntata della sesta stagione di Madame Secretary, andata in onda negli Stati Uniti proprio negli stessi giorni in cui il Congresso, quello vero, discuteva e votava l’impeachment vero: quello a Donald Trump.

È interessante la coincidenza, evidentemente non del tutto casuale: la fiction di cui parliamo appartiene a quel corposo filone americano che affronta la narrazione politica e illustra il funzionamento delle istituzioni americane che fu inaugurato dal celebre e amatissimo “West Wing” ( dal nome dell’ala della Casa Bianca in cui lavorano il presidente e i suoi più stretti collaboratori) alla scrittura del quale collaborarono - per farla breve- tutti i chief of staff e i portavoce presidenziali di Ronald Reagan, dei due Bush e di Bill Clinton.

Una fiction, per capirci, che si usa, anche in Italia, nelle aule universitarie per illustrare la dinamica costituzionale in un sistema presidenziale quale è quello americano. Su quella stessa scia, in “Madam Secretary” accanto all’attrice Tea Leoni sono apparsi Madeleine Albright, Colin Powell e Hillary Clinton: i veri responsabili della politica estera americana dell’ultimo quarto di secolo.

Rappresentando così televisivamente la tradizione, interrotta solo con l’avvento di Trump, dello stretto rapporto coi predecessori, in nome della continuità in politica estera. Poi, sia detto per inciso, Madeleine Albright e Tea Leoni si sono ritrovate a discutere della politica estera di Trump sulle colonne del New York Times.

La commistione tra fiction e realtà non deve stupire. La finzione può rivelare dati di verità profonda più della stessa realtà: è un meccanismo noto, e studiato, in letteratura. E anzi, proprio perché sganciata dai condizionamenti del contingente, la finzione può riuscire a rendere l’essenziale del messaggio. Le sei stagioni di Madam Secretary, storia di un’ex analista della CIA nominata Segretario di Stato da un presidente indipendente - ovverosia non sostenuto né dal partito democratico né da quello repubblicano- ed eletta a sua volta come indipendente alla Casa Bianca, ha questo preciso messaggio al proprio centro: una forte leadership femminile è possibile.

Ma soprattutto è possibile un nuovo tipo di leadership. Che affronti e non lasci marcire i problemi, correndo i rischi che questo comporta. Che sia consapevole della responsabilità più che degli onori connessi alla carica. Che usi la diplomazia e le parole prima che le armi e l’aggressività per risolvere i conflitti. Che renda conto del proprio operato.

Se guardiamo in filigrana, data la contemporaneità della fiction e della realtà, le differenze tra il presidente tv Elizabeth McCord e quello reale Donald Trump, notiamo che la prima ha affrontato, sottoponendosi al giudizio, la procedura di im- peachment: come fece Bill Clinton, e come evitò invece di fare, dimettendosi, Richard Nixon. Donald Trump invece si è limitato per ora a tuittare la propria rabbia, “è una follia”. Dei due comportamenti, quello più in linea con la Costituzione americana è evidentemente il primo.

Tutto questo lungo prologo per arrivare a dire, nel momento in cui alcune donne arrivano in posizione di potere mai raggiunte prima - basti citare Christiane Lagarde alla Banca centrale europea- che l’arretratezza italiana segnalata da molti osservatori non è un fatto che riguardi solo alla questione femminile.

Da un lato, in Paesi come la Danimarca, la Finlandia, l’Islanda, o la stessa Unione Europea, emergono leadership politiche femminili quando il gioco si fa duro: la complessità dei problemi da affrontare è tale che da un lato i maschi passano non troppo malvolentieri la mano, dall’altra gli elettori dei Paesi nordici o dell’Est europeo accettano la sfida del nuovo.

Sono Paesi nei quali l’affermazione femminile nel mondo del lavoro trova meno ostacoli: le leadership politiche, o di vertice di grandi e cruciali organizzazioni, possono affermarsi solo sulla scia di tendenze già affermatesi nella società. Basti pensare a un dato allarmante emerso da un’indagine di Eurobarometro e di cui si è molto discusso pochi giorni fa in un convegno sul gender gap in Banca d’Italia, aperto dal governatore Ignazio Visco: a un sondaggio su quale fosse il ruolo delle donne nella società, il 51% degli italiani - uomini e donne- hanno risposto “l’accudimento familiare”. Nei Paesi del Nord Europa come la Svezia quella risposta l’ha data solo l’ 11 per cento.

E il fattore culturale, gli stereotipi, ha sottolineato Alessandra Perrazzelli che di Bankitalia è da poco vicedirettore generale, “hanno l’effetto di bloccare il lungo percorso che può portare ad inserire un pensiero diverso nei processi decisionali”. Il gender gap come primo blocco di leadership nuove, e di cambiamento sociale. Per questo, verrebbe da dire, l’Italia ha poche speranze: quale Parlamento mai, in base a quale composizione politica, potrebbe eleggere una donna al Quirinale?

E basta un fiore all’occhiello per far cambiare ed evolvere un’istituzione o un’organizzazione? Anche il recentissimo arrivo al vertice della Corte Costituzionale della giudice Marta Cartabia - costituzionalista di vaglia, tra le più affermate internazionalmente- è arrivato solo grazie al criterio abituale ( e non formalmente stabilito da alcuna norma) dell’anzianità di nomina. Cartabia l’ha spuntata su due colleghi maschi che avevano la sua stessa anzianità di nomina solo perché, come hanno a suo tempo riferito le cronache, il dibattito sull’accesso al ruolo di presidente per una donna nel collegio dei 15 giudici - solo 3 di essi sono donne- era stato lanciato da alcuni giudici illuminati, anche con il tentativo non riuscito di convincere il predecessore di Cartabia a un passo indietro, permettendole una presidenza di ampio respiro, pari a 3 anni, invece dei 9 mesi - di cui di fatto solo 6 operativi- nei quali si svilupperà oggi la sua leadership.

Questo per dire che il gender gap in Italia oggi è un fenomeno di dimensioni così allarmanti che le donne non possono farcela senza la consapevolezza da parte dell’intera società - a cominciare dagli uomini- che nessun progresso è possibile, né sociale né politico né economico, tagliando fuori l’altra metà del cielo. Che sia poi, in Italia, proprio un’altra metà è presto detto: il 56 per cento della forza lavoro femminile in Italia è fuori gioco.

È il livello più basso dell’intera Unione europea, che condividiamo con Grecia, Cipro e Malta: ancora più in basso se si considera che al Sud lavora solo 1 donna su 3. Sono ormai moltissimi gli studi - hanno spiegato sia il governatore Visco che l’economista Paola Profeta, curatrice di un numero della Rivista Economica dedicato al gender gap e a come superarlo- che dimostrano gli effetti cruciali per la crescita economica dell’intero Paese derivanti da una forte ( se non piena) partecipazione delle donne al mondo del lavoro: si deve al lavoro femminile oltre un terzo dell’intera crescita registrata negli Stati Uniti tra il 1960 e il 2010.

Superare il gender gap, sono state le conclusioni di quella giornata di convegno a Via Nazionale, serve non solo sul fronte dei diritti e delle diseguaglianze: serve a dare benefici economici a tutta la società in termini di crescita, capitale umano e produttività. “Sono ormai numerosi gli studi e le ricerche che dimostrano come la leadership femminile e la presenza delle donne ai più alti livelli nelle organizzazioni e nelle istituzioni migliorino sensibilmente le organizzazioni e le istituzioni stesse: migliorando anzitutto la qualità dei processi decisionali, perché l’apporto femminile è più innovativo e attento a sviluppare le potenzialità delle organizzazioni e delle istituzioni stesse”, dice Profeta.

Le donne hanno “cura” del luogo in cui lavorano e delle persone con cui lavorano, verrebbe da concludere. E al mondo, nel sommovimento in atto nelle società che ha le diseguaglianze a un capo della matassa e leader egoriferiti e distruttivi dall’altro capo, serve l’apporto femminile.

Come per l’ambiente, anche il tempo per superare il gender gap si è fatto breve. Anche considerando che la lunga marcia delle donne ha fatto enormi progressi nell’ultimo secolo, ed è inarrestabile. Anche in una società retriva come quella italiana, l’avanzamento avverrà comunque perché le ragazze sono più brave a scuola: nella fascia d’età compresa tra i 25 e i 44 anni, già ora le laureate sono il 30% e i laureati il 20%. Le indagini dell’Ocse dimostrano che hanno migliore comprensione dei testi su cui studiano, voti migliori e percorsi d’appremdimento costanti.

“In prospettiva forse il problema di gender gap riguarderà gli uomini” sorride con amara ironia Ignazio Visco. Ma non sarebbe meglio fare più in fretta a uscire dal monopolio maschile del mondo del lavoro? “Sono scelte economiche e di bilancio”, dunque scelte politiche seguendo il ragionamento di Alessandra Perrazzelli: “sin qui si è messo il lavoro di cura sulle spalle delle donne, e questa scelta impatta sul lavoro, sulla demografia e sulla politica. Tutti i dati dicono invece che appena si implementa il sostegno alle famiglie aumentano i numeri della natalità e la partecipazione al lavoro, con conseguenti aumenti del Pil e diminuzione delle diseguaglianze”. Ma le scelte economiche e politiche, come sappiamo, sono orientate dagli stereotipi culturali.

E anche ad agire sugli stereotipi culturali servono le fiction. Come dire, meglio “Madam Secretary” che “Non dirlo al mio capo”. A proposito, volete sapere come finisce la storia di Elizabeth Mc-Cord prima presidente donna degli Stati Uniti? La procedura di impeachment si risolverà in un nulla di fatto: i senatori ( repubblicani) che l’avevano inquisita senza avere nulla in mano si ritireranno in buon ordine, mentre sotto la Casa Bianca milioni di americani manifestano brandendo i cartelli “lei è il mio presidente” ( locali sardine, si direbbe in Italia...). Come finirà quella di Donald Trump non sappiamo. Ma comunque vada non sarà di certo un happy end.