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La Francia ha il suo verdetto, che è molto più di una sentenza. Così come il maxiprocesso sugli stupri di Mazan che si è concluso oggi in primo grado è stato molto più di un processo. La prova è nel “boato” seguito alla decisione dei giudici: pena massima per Dominique Pelicot, condannato a 20 anni di carcere per “stupri aggravati” nei confronti dell’ex moglie Gisele.
Nessun assolto tra gli altri 50 imputati, condannati per stupro o “aggressione sessuale”: le pene vanno da 3 anni di reclusione, di cui 2 anni con la condizionale semplice, a 15 anni. Sono tutti uomini di età compresa tra i 27 e i 74 anni - giornalisti, soldati, operai, guardie carcerarie, operai, informatici. Uomini “qualunque” ritratti in forma di icona in quelle infografiche interattive che riempiono i giornali francesi.
Basta cliccare sulla singola casella per conoscere entità della pena, addebiti e profilo. Mentre il volto di Gisele tappezza ogni angolo della rete. C’è il suo caschetto castano che spunta da una nuvola di telecamere mentre si fa strada a fatica sulla “passerelle”, il corridoio del tribunale dal quale fa ingresso per ascoltare la sentenza. È la vigilia di un verdetto preteso. Dopo il quale ritroviamo il palcoscenico e la vittima, accolta con grida e cartelli davanti al tribunale di Avignone. «Merci, Gisele», grida la folla. Che si fa bastare solo a metà il giudizio emesso: per i coimputati di Dominique Pelicot è inferiore alla richiesta della pubblica accusa.
Gisele, invece, lo accetta e lo rispetta. Prende finalmente parola, dopo aver centellinato le sue dichiarazioni per oltre tre mesi di udienze. «Questo processo è stato una prova molto difficile», dice leggendo una dichiarazione alla stampa. «Rispetto la decisione della Corte. Penso ai miei tre figli e ai miei nipoti, perché loro sono il futuro. È anche per loro che ho portato avanti questa lotta. Penso anche a tutte le altre famiglie colpite da questa tragedia. Penso anche alle vittime non riconosciute, le cui storie rimangono spesso nell’ombra. Voglio che sappiate che condividiamo la stessa lotta», spiega Gisele tornando sulla decisione di tenere il processo a porte aperte.
Una scelta che dal 2 settembre, quando è entrata in aula per la prima volta, non ha mai rimpianto. Perché – dice - è servito a farvi entrare la società, portando alla sbarra la cultura dello stupro. «Ora confido nella nostra capacità di “afferrare” collettivamente un futuro in cui ognuno, donna e uomo, possa vivere in armonia, nel rispetto e nella comprensione reciproca», chiosa Gisele. Accompagnata dai suoi figli, che si sono detti «delusi» dalle condanne, perché troppo «lievi». Lo sono anche le associazioni femministe che hanno seguito il caso ad ogni step, e che ora chiedono riforme strutturali sulla violenza di genere, perché la «battaglia è ancora lontana dall’essere finita».
Gisele ne è il simbolo. Da quando ha rinunciato all’anonimato garantito alle vittime di violenze sessuali. Nel 2023 aveva divorziato dal marito, dopo aver scoperto l’abisso di orrori che aveva subito senza averne coscienza. Per 10 anni, fino al 2020, è stata drogata dal marito, “sottomessa chimicamente”, e violentata mentre era priva di sensi da decine di uomini. Dominique Pelicot, 72 anni, li aveva ingaggiati con un annuncio su internet, che recitava così: “A sua insaputa”.
Gisele lo ha scoperto solo quattro anni fa, quando l’ex marito è stato arrestato per aver filmato di nascosto alcune donne al supermercato, con l’obiettivo puntato sotto la gonna. Quando la polizia ha cominciato a indagare, ha trovato nel pc dell’uomo un’enorme quantità di materiale: 20mila foto e video che documentano gli abusi. Si contano 92 stupri. Che Gisèle si è ritrovata improvvisamente sotto gli occhi, in quelle immagini che la ritraggono come vittima inerme della violenza. Spinta fino all’incoscienza per anni, «vicina al coma», comincia riconoscerne i segni: la stanchezza, i disagi e la perdita di memoria sofferta per anni non sono parte di una patologia per cui non esiste diagnosi. Sono il frutto della “sottomissione chimica” che le è stata inferta attraverso dosi misurate di ansiolitici, il Temesa, somministrato per gradi secondo le indicazioni di un’infermiera.
Tutti dettagli che sono emersi nella loro asprezza, nell’aula di Avignone. Ma senza timore, come riassume la frase-simbolo di questo enorme processo aperto: «Il faut que la honte change de camp» (bisogna che la vergogna cambi lato). Ne parlano i leader politici degli altri Paesi, dal premier spagnolo Pedro Sanchez all’ex cancelliere tedesco Olaf Scholz, che hanno lodato il coraggio e la dignità di Gisele. La coscienza dell’opinione pubblica francese ne esce scossa, frastornata, con le ossa della giustizia quasi rotte. Soprattutto per ciò che riguarda la difesa di Dominque Pelicot, rappresentato dall’avvocata Bèatrice Zavarro, ricoperta di insulti e prediche perché donna. “Come può una donna difendere uno stupratore?”.
Sono le scorie del processo mediatico. Il cui rituale si è concluso oggi: la folla grida vergogna, mentre uno dei difensori inveisce contro le femministe, le “tricoteuses”. Tutto in un angolo di Francia che diventa lo spioncino di un Paese spaccato dalla rabbia del MeToo. Il caso di Mazan né è l’indizio imprevedibile. Perché ci trascina in un villaggio di 6mila anime al di sopra di ogni sospetto, dove Gisele e Dominique si sono trasferiti dopo la pensione e 50 anni passati insieme.
Lì si sono consumati gli stupri. Nei video, gli investigatori hanno contato 72 diversi aggressori, ma non sono riusciti a identificarli tutti. Molti degli imputati si sono difesi sostenendo di essere ignari che l’uomo drogasse la moglie, o che in ogni caso lei avrebbe acconsentito nell’ambito di quello che viene definito come una sorta di contesto “libertino”. Secondo un conteggio dell’emittente Franceinfo, dei 51 uomini condannati, 41 andranno in carcere immediatamente. Quanto a Dominque Pelicot, spiega la sua legale, «ha preso atto» della sentenza. «Approfitteremo del termine di dieci giorni che ci è stato concesso – fa sapere Zavarro - per decidere se ricorreremo in appello».