Il corpo di Yara Gambirasio viene ritrovato tre mesi dopo la sua scomparsa. In un campo. Abbandonata. Là dove è morta, non per le ferite da arma da taglio, ma molto probabilmente per il freddo. Una morte atroce, che mette fine alle speranze dei genitori che dal 26 novembre del 2010, giorno in cui lascia la palestra a Brembate di Sopra per non tornare mai a casa, non hanno smesso un solo istante di cercarla. Quando viene scoperta, per caso da un aeromodellista nel campo di Chignolo d’Isola, Yara è già un corpo conteso, una storia pubblica, fagocitata, quasi cannibalizzata da tv e giornali.Fin dall’inizio l’inchiesta e poi il processo nascono sotto questa cattiva stella: la stella dei riflettori televisivi che si accendono non sui fatti, non sulla complessità, ma sulla semplificazione.L’inchiestaPrima del ritrovamento del corpo viene fermato l’operaio marocchino Mohammed Fikri che lavora in un cantiere edile di Mapello. Viene rilasciato con tanto di scuse: avevano sbagliato la traduzione di una intercettazione.Le indagini, “quelle vere”, si concentrano invece fin da subito sul Dna che viene ritrovato sugli indumenti intimi di Yara. È del famigerato “Ignoto uno”. La pressione mediatica è sempre molto forte: chi ha ucciso Yara? Chi è stato? Serve al più presto non l’assassino, ma “un” assassino. Uno qualsiasi. Ma nelle mani gli inquirenti hanno solo il Dna. I cittadini della zona vengono sottoposti, volontariamente, all’esame genetico, fino ad arrivare a individuare quasi 3 anni dopo colui che secondo gli investigatori è Ignoto 1: Massimo Bossetti.L’arrestoÈ il 16 giugno del 2014. Le forze dell’ordine arrivano davanti casa del muratore di Mapello. Insieme a loro arrivano anche giornali e tv. Bossetti viene portato via, manette ai polsi, immortalato in un’immagine che fa il giro di tutti gli schermi e di tutte le prime pagine. Per la legge sarebbe un presunto innocente. Per la Costituzione non sarebbe, prima dei tre gradi di giudizio, il colpevole. Ma per la Procura di Bergamo che coordina le indagini e per il ministro dell’Interno non ci sono dubbi. «Abbiamo preso l’assassino», dichiara Angelino Alfano con i riflettori ancora accesi sulle manette. Da quell’istante in poi per Bossetti è difficile sfuggire alle maglie di un processo - iniziato un anno fa - che si è giocato più nei salotti tv che nell’aula del tribunale di Bergamo.Il furgoneIl movente del delitto non c’è. Neanche nella sua requisitoria la pm Letizia Ruggeri ha chiarito questo punto. La prova regina è considerata il Dna, con una serie di indizi collaterali. Tra questi il furgone di Bossetti. Le telecamere vicine alla palestra di Yara lo avrebbero ripreso mentre passava poco prima che la ragazzina, tredicenne, uscisse dalla palestra. Lui si è sempre difeso dicendo che passava lì per lavoro, mentre la difesa ha contestato l’orario esatto del passaggio e il fatto che il veicolo fosse compatibile ma non certamente di Bossetti. Il problema non è tanto questo. È il fatto che la procura abbia chiesto ai carabinieri di montare un filmato in cui si vede il passaggio ossessivo di un furgone simile a quello del muratore di Mapello. Ma non era vero. Non erano immagini che riguardavano il possibile veicolo dell’imputato, ma un “filmino” montato ad hoc per «esigenze di comunicazione». Lo ha chiarito durante il processo il capo dei Ris di Parma, Giampiero Lago, che ha ammesso che quel video «era stato concordato con la procura a fronte delle pressanti e numerose richieste di chiarimenti della circostanza che era emersa». Il video che tutti abbiamo visto non è mai entrato a far parte del processo. Una storia incredibile che lascia tuttora increduli: l’esigenze di comunicazione, il rapporto con la stampa vengono prima della verità processuale? Prima della presunzione di innocenza? Prima della preoccupazione di mandare in galera un innocente?La prova reginaIl vero scontro è sempre stato sul Dna. E’ considerata la prova regina, la “pistola fumante” nella mani dell’accusa. Per la pm Letizia Reggeri il Dna è sicuramente di Bossetti. Ma i dubbi sono tanti. Il Dna nucleare (quello di discendenza paterna) coinciderebbe con quello di Bossetti, mentre non coincide quello mitocondriale di discendenza materna. E’ per questa ragione che la difesa ha chiesto, durante il processo, di poter ripetere l’esame del Dna per chiarire anche la metodologia usata. Ma non è stato possibile. Secondo Natale Fusaro, docente di Criminologia alla Sapienza di Roma, si tratta di un vero e proprio vulnus. «La prova si forma nel contraddittorio, ma l’esame del Dna è avvenuto prima che Bossetti fosse indagato». Nel caso del processo Meredith, la ripetizione dell’esame del Dna, che in primo grado aveva incastrato Sollecito e Knox, aveva permesso di stabilire che la metodologia usata non era valida e che quindi non era valida neanche la prova principale contro i due ragazzi. E se fosse così anche per Bossetti? L’esame non si può ripetere anche perché non c’è sufficiente materiale organico. «Ma chiarire il metodo - sottolinea Fusaro - è fondamentale. Se ci si avvale delle prove scientifiche, si deve essere in grado di dimostrare come si è operato».Fiction o realtàBossetti è diventato suo malgrado protagonista di una sorta di fiction. Secondo la pm sarebbe un “perverso”, perché guardava i siti pornografici e perché in carcere ha scritto lettere un po’ osè a un’altra detenuta. Il processo è stato fatto più alle intenzioni, al presunto carattere, che con le prove. In mezzo ci sono finiti i familiari. Prima la madre. Il Dna dimostrerebbe che il padre non sia il marito, ma il famoso autista Giuseppe Guerinoni, con cui la donna avrebbe avuto una relazione extra coniugale. In questo caso il dato rientra nell’inchiesta, ma è pur sempre un dato sensibile che è finito in pasto ai media. Così la vita coniugale di Bossetti. Setacciata, scandagliata, sbattuta in prima pagina. Ma tutto questo cosa ha a che fare con il processo? Con le prove? Con lo Stato di diritto? Solo davanti alla sentenza, la fiction diventa una realtà, una brutta realtà, finita in primo grado con la condanna.