C’è un film di una ventina di anni fa. Il protagonista è un giovane. Parricida e matricida. È ispirato abbastanza esplicitamente alla storia di Pietro Maso. Alcune scene sono cruente al limite dell’horror: al momento del massacro, uno dei complici del protagonista gli urla, machete in pugno, “questa non vuole morire!”. Si riferisce alla mamma dello sciagurato amico. Che arriva e provvede a finirla. Cosa c’entra con Matteo Salvini e Armando Spataro? Niente. C’entra però una scena meno pulp, ma se possibile più brutta, di quella stessa pellicola (il cui titolo, significativo, è “I pavoni”). Con le mani ancora mezze sporche di sangue, lo pseudo-Maso si fa scortare dall’autista dell’azienda di famiglia. Nessuno ancora sa che ad ammazzare il padre e la madre è stato proprio il rampollo. Neppure il povero autista. Al quale il giovane pluriassassino dice: “Lei deve stare a casa sua. A riposarsi…”. Lo congeda così. Poche ore prima di essere arrestato, ovviamente.

Tanto per dire che scherzare sull’età della pensione più o meno raggiunta non è mai simpatico. Ora è chiaro che, quando Salvini ha detto a Spataro “se è stanco si ritiri dal lavoro”, con la perfidia livorosa di chi sa che il grande magistrato davvero sta per lasciare la toga perché compirà 70 anni il 16 dicembre, è chiaro, si diceva che Salvini con quella frase non ha tradito alcuna pulsione parricida. Però non ha fatto comunque una cosa commendevole, questo sì e pur sempre con le dovute proporzioni letterarie.

Di Spataro si può dire che non si accontenta di fare il burocrate della giustizia: e grazie al cielo. Ce ne diano ancora, di magistrati così. Speriamo anzi che una volta uscito dal ruolo funzionale, il procuratore di Torino si metta a disposizione del dibattito pubblico, si impegni a sostenere le proprie idee, a promuovere le proprie battaglie. Se ci riflettesse un attimo, dovrebbe augurarselo pure Salvini. Perché un Paese, una politica senza voci critiche sono come minimo dimezzati.

Armando Spataro è un leader della cosiddetta sinistra giudiziaria, in particolare di “Movimento per la giustizia”, uno dei due gruppi riuniti oggi nella corrente togata “Area” (l’altro è “Magistratura democratica”). Ma è soprattutto un magistrato dal coraggio sfrontato. Se l’è vista con brutta gente: le Br e Prima linea, negli anni in cui il terrorismo rosso metteva i magistrati in cima alla lista dei nemici da giustiziare. Poi, sempre a Milano, dove indagò anche sull’omicidio Tobagi, fu tra i primi inquirenti italiani a dare sistematicamente la caccia a mafiosi e ’ndranghetisti trapiantati al Nord. Nelle cronache riecheggia più rumorosamente il suo lavoro sull’ex imam Abu Omar, certo è che criminalità organizzata e soprattutto terrorismo sono stati i suoi bersagli preferiti. A lungo nella “capitale morale” e poi a Torino. Non ha mai smesso di coniugare il rigore nelle inchieste con l’attenzione ai temi del dibattito pubblico legati al diritto. Non solo in questi ultimi mesi, quando si è trovato in più di un’occasione dalla parte opposta a quella di Salvini. Non solo quando, a inizio luglio disse che “si deve perseguire sia il reato connesso all’immigrazione sia quello a sfondo razziale, sempre più frequente”. Non si tratta solo delle sue prese di posizione recenti sul diritto a non rimanere a bordo per i passeggeri di una nave che attracca in un porto italiano. Si tratta anche di altre occasioni, che Salvini dovrebbe considerare, in cui Spataro è stato dalla sua stessa parte: per esempio contro il referendum sulla riforma Renzi. Il procuratore di Torino intervenne in alcuni dibattiti pubblici per sostenere il “No” alla consultazione. All’epoca, va detto, l’attuale vicepremier non lo invitò ad accelerare le pratiche per lasciare la toga.

Spataro è persona tenace nel difendere qualsiasi diritto riconosciuto come tale. E in questo non c’entra la sensibilità “di sinistra”. A proposito del riserbo sulle indagini, a cui ha richiamato il ministro dell’Interno, andrebbe ricordato che è anche grazie a una circolare messa a punto dal capo dei pm torinesi se poche settimane fa si è arrivati alla sentenza della Consulta sulle “informative ai superiori”. È la pronuncia che ha travolto il decreto dell’estate 2016 con cui si estese a tutte le forze di polizia l’obbligo previsto per i carabinieri di informare i superiori su avvio e andamento di qualsiasi inchiesta. Una insensatezza che alcuni sospettarono fosse stata messa a punto per intercettare le mosse di Woodcock su Consip. Anche lì Salvini avrebbe potuto trovarsi d’accordo con Spataro, seppure il magistrato non avesse in mente l’indagine partenopea.

Quanto meno il capo leghista avrebbe dovuto compiacersi della mossa con cui il pm creò i presupposti per la pronuncia di incostituzionalità: lo fece con una circolare in cui sollecitava i capi delle forze dell’ordine chiamati a svolgere funzioni di polizia giudiziaria affinché gli comunicassero formalmente di non potersi attenere al “segreto” ogni qual volta lui, il procuratore, lo avesse invocato. Il tutto in modo da rimettere alla Consulta proprio quell’atto formale (ce ne voleva uno da impugnare) della polizia. Alla fine la norma ci è arrivata sul serio, davanti al giudice delle leggi – anche grazie a un collega di Spataro, il procuratore di Bari Giuseppe Volpe – ed è franata miseramente. Magari Salvini, il re degli antirenziani, ne sarà stato felice. Ne avrebbe dovuto ringraziare anche Spataro. Ma vaglielo a spiegare.