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È un effetto domino quello generato dalla bancarotta della Silicon Valley Bank, un tempo mecenate e finanziatrice delle start up nate nel Golden State e non solo, adesso chiusa dalle autorità federali.
Quello che si è verificato in California è il più grande fallimento bancario dalla crisi finanziaria del 2008. Un anno finito sui libri di storia a causa di un altro crack, quello di Lehman Brothers. SVB dal 1983 è specializzata nel fornire finanziamenti e servizi bancari alle aziende che si occupano di tecnologia e innovazione. La crescita della banca è stata esponenziale, fino a diventare un punto di riferimento per le maggiori piazze finanziarie del mondo, presente, oltre che negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Cina e in Israele. Silicon Valley Bank ha contribuito negli anni scorsi al successo, ad esempio, di Google, Yahoo! e LinkedIn. Per arginare l’onda lunga del contagio, la Bank of England è corsa ai ripari: Hsbc, colosso finanziario britannico ha rilevato la filiale d’oltremanica di SVB.
Le notizie che provengono dagli Stati Uniti stanno avendo ripercussioni dirette sulle Borse di tutto il mondo. Piazza Affari ieri è risultata quella più in sofferenza.
Lì dove è nata quest’altra crisi finanziaria, dagli esiti ancora da decifrare – alcuni esperti parlano di ripercussioni dirette sul settore delle criptovalute con perdita di fiducia degli investitori e maggiori controlli da parte delle autorità di regolamentazione -, si segnala un’altra notizia poco confortante.
Nel giro di pochissimi giorni ad essere azzoppata dal fallimento verificatosi in California è stata la Signature Bank, chiusa con un intervento diretto delle autorità statunitensi.
Mettere sullo stesso piano i crack di Silicon Valley Bank e Lehman Brothers potrebbe essere fuorviante. È diverso il periodo storico in cui sono collocati i due fallimenti. Un elemento in comune, però, potrebbe essere quello dei licenziamenti di massa. Nel 2008 fecero scalpore le immagini dei dipendenti Lehman Brothers intenti a lasciare il posto di lavoro, a New York come in altre parti del mondo, con gli scatoloni tra le braccia. La Silicon Valley Bank ha iniziato a vacillare neanche una settimana fa (mercoledì scorso per la precisione), quando ha comunicato di aver perso circa 2 miliardi di dollari e ha annunciato la vendita di diversi asset per soddisfare la domanda di prelievi. Di qui le notizie virali hanno gettato nel panico il settore tecnologico; tantissime start-up hanno iniziato una vera e propria corsa a ritirare i loro soldi.
La frenetica corsa agli sportelli e le preoccupazioni che si sono impossessate del settore hi-tech hanno scatenato la valanga. La Federal Deposit Insurance Corporation (agenzia governativa che, tra le varie cose, vigila sulla solvibilità delle banche) venerdì scorso ha annunciato che stava prendendo il controllo della Silicon Valley Bank: ha preso corpo il più un grande fallimento bancario dalla crisi finanziaria di quindici anni fa.
Uno scenario che ha indotto frettolosamente le aziende tecnologiche con denaro depositato nell’istituto a pagare i dipendenti e i fornitori.
Il tutto a dispetto di un report del Dipartimento per la protezione finanziaria e l’innovazione della California, secondo il quale la Silicon Valley Bank versava in «buone condizioni finanziarie prima del 9 marzo».
Lo tsunami che potrebbe abbattersi da questa parte dell’Atlantico induce Gianluca Gambogi, penalista del Foro di Firenze e docente presso la Scuola di polizia economico-finanziaria della Guardia di Finanza di Roma-Lido di Ostia, a fare alcune analisi e previsioni. L’avvocato Gambogi si sofferma sui rischi che negli Stati Uniti corrono i conti correnti bancari, comunque, garantiti fino ad un certo ammontare.
«Rimane però il fatto – dice al Dubbio - che, stando alle prime notizie apparse anche sui giornali stranieri, la gran parte della clientela della Silicon Valley Bank è costituita da investitori professionisti ovverosia imprese e società del settore tecnologico che disponevano sui conti correnti di cifre molto superiori alla soglia tutelata, tant’è vero che parrebbe scoperto circa il 90% dei 175 miliardi di dollari in deposito».
Quanto accaduto in California potrebbe avere conseguenze giudiziarie per i manager della SVB. «Le pene negli Stati Uniti – commenta Gambogi - sono severe. D’altra parte, stando a quanto si legge, l’operato della dirigenza è quantomeno discutibile, se si pensa che l’innesco del crack è dato da un annuncio in virtù del quale la banca, fino a quel momento ritenuta ben patrimonializzata e solvibile, aveva intenzione di reperire immediatamente 2,25 miliardi di dollari di nuovi finanziamenti tramite l’emissione di bond. Questo tipo di operazione è tardiva e fa pensare che negli ultimi tempi sia stata fortemente sottovalutata dai dirigenti la situazione del mercato e anche la stessa situazione patrimoniale della banca».
Le ricadute sono sotto gli occhi di tutti.
«Negli Stati Uniti – aggiunge Gianluca Gambogi - anche la Signature Bank di New York, molto utilizzata da studi legali e da professionisti, che conta più di 2mila addetti, è stata chiusa e la ragione pare essere ricollegata proprio a quanto accaduto alla banca californiana».
Il penalista, già difensore di Denis Verdini per il fallimento del Credito Cooperativo Fiorentino, rassicura in merito alle conseguenze in Italia: «In linea teorica non dovrebbero aversi. Intanto, perché la legge bancaria italiana è estremamente ben scritta e anche molto severa. Secondariamente, perché i criteri sulla valutazione dei depositi sono differenti e, poi, perché è pur vero che le Borse europee hanno registrato perdite, ma l’Italia pare essere vicina a quella che è la situazione francese per la quale, come detto dal ministro dell’Economia transalpino, non esiste allarme alcuno. A livello internazionale si legge invece che alcune ricadute potrebbero esservi per la Gran Bretagna».
Eventuali clienti italiani della Silicon Valley Bank come potrebbero tutelarsi? «Se vi sono correntisti italiani o aziende italiane – evidenzia l’avvocato Gambogi -, sarebbe opportuno verificare se è vero che dal 13 marzo, così come promesso dalle Autorità di controllo americane, i depositi saranno via via rimborsati dietro semplice richiesta e, laddove così non fosse, di attivarsi immediatamente per tutelare i loro diritti dinanzi alle autorità giudiziarie competenti. Ovvio che da cittadino italiano mi auguro che non vi sia nessun connazionale con problematiche di questo tipo».