Proprio alcuni giorni fa la Corte d’Appello di Palermo ha ammonito le Procure che usano le parole dei defunti nei processi: ha dichiarato inutilizzabili le dichiarazioni di un pentito giacché il pm non aveva fatto nulla affinché l’imputato potesse controdedurle in seguito a un confronto, nonostante lo stesso pm ben sapesse che quel pentito era malato di tumore e sarebbe potuto morire, come poi era avvenuto. Ora, è chiaro che al pm del processo Stato– mafia Nino Di Matteo non si può rimproverare di non essersi affrettato a “escutere” la testimonianza di Loris D’Ambrosio, visto che quest’ultimo morì d’infarto improvvisamente, poche settimane dopo essere stato intercettato al telefono con Nicola Mancino. Ma forse quando ieri ha chiamato in causa il compianto consigliere giuridico del Quirinale avrebbe potuto farlo con minor crudezza.

Ieri la requisitoria dell’accusa è andata avanti. Con un cambio di staffetta nel finale, da Di Matteo a Roberto Tartaglia, ma con una cifra analoga a quella, quasi rabbiosa, registrata il giorno prima nell’aula bunker dell’Ucciardone. Dinanzi alla Corte d’assise presieduta da Alfredo Montalto, Di Matteo non ha avuto riguardi per Mancino, fino a contestargli di essersi “difeso troppo”.

Paradossale ma anche velenosa, come accusa “sostanziale” ( secondo quella processuale, l’ex ministro dell’Interno avrebbe reso falsa testimonianza): “Con le sue spontanee dichiarazioni, con le produzioni documentali, in certi momenti è sembrato che l’imputato Nicola Mancino più che difendersi dalle accuse che muoviamo ( falsa testimonianza appunto, ndr) si difendesse e intendesse difendersi dall’accusa di concorso in associazione mafiosa che non gli è stata mossa”. Paradossale, perché contestare a qualcuno di aver prodotto troppi documenti a propria difesa pare preso a prestito da un film di Sacha Baron Coen. Velenoso, perché sembra si alluda a una coscienza sporca da collaborazionista. Retropensieri a parte, il magistrato, che con i colleghi Tartaglia, Francesco Del Bene e Vittorio Teresi sostiene l’accusa al processo Trattativa, esprime “pieno rispetto della funzione difensiva esercitata con grande correttezza e professionalità” dai legali di Mancino. Difesa nella quale però “in certi momenti di questo dibattimento ci è sembrato rilevare una parziale incongruenza rispetto al capo d’imputazione”. Assai meno tenui sono i rilievi direttamente rivolti all’ex capo del Viminale: “Mancino ha detto il falso: ha scelto la menzogna, l’omertà istituzionale”. L’ex ministro ha affermato, nella sua prima versione dei fatti, di non avere “alcun ricordo” di una delle circostanze chiave su cui è stato interpellato: il colloquio avuto, nel giorno del suo insediamento al ministero, il 1° luglio 1992, con Paolo Borsellino. Sul punto, come sulle informazioni in merito all’incontro del Ros con Vito Ciancimino, Mancino avrebbe reso affermazioni “oscillanti e contraddittorie”, dice il pm in Aula. Nelle dichiarazioni spontanee rese l’anno scorso al processo, Mancino sostenne che le ricostruzioni proposte dall’ex guardasigilli Claudio Martelli lo avevano indotto ad appurare di aver avuto un breve incontro con Borsellino che però all’epoca non conosceva fisicamente.

C’è un “secondo tempo”, nella parte della requisitoria dedicata ieri da Di Matteo all’ex ministro dell’Interno: chiama appunto in causa Loris D’Ambrosio e un altro ex Capo dello Stato, Giorgio Napolitano ( il giorno prima era stato Oscar Luigi Scalfaro ad essere descritto come “principale attore” delle scelte con cui lo Stato si sarebbe “ammorbidito” nei confronti di Cosa nostra). Ebbene, Napolitano avrebbe “assecondato e alimentato” il “tentativo del privato cittadino Nicola Mancino di influire e condizionare l’attività giudiziaria dei pm e addirittura le scelte di un collegio di giudici”. Laddove quel tentativo, dice Di Matteo, avrebbe dovuto essere “doverosamente stoppato in partenza”. Decisive, nel definire un quadro che il pm ricostruisce come cornice ma non come condotta penalmente rilevante, sono le conversazioni tra l’ex ministro e il consigliere D’Ambrosio. Giacché era “molto preoccupato dall’inchiesta sulla Trattativa”, il primo esercitava un “pressing continuo nei confronti della presidenza della Repubblica”, un pressing che “cresceva esponenzialmente nel momento in cui si ventilava la possibilità di un confronto con Claudio Martelli sull’informazione relativa ai Ros e Vito Ciancimino”. Confronto che Mancino avrebbe fatto di tutto per evitare. Con una pressione rivolta “più in generale” a “ostacolare le indagini e contrastare le valutazioni della Procura” in vista di una “avocazione dell’indagine da parte dell’allora procuratore nazionale Antimafia Pietro Grasso”. In realtà nei colloqui intercettati tra Mancino e D’Ambrosio, l’avocazione non pare mai un’ipotesi percorribile. Il defunto consigliere giuridico spiegò all’ex Capo del Viminale: “Il presidente ha preso a cuore la questione ma mi pare difficile che possa fare qualcosa. L’unico che può dire qualcosa è Messineo ( l’allora procuratore di Palermo, ndr), l’altro è Grasso. Ma il pm Di Matteo in udienza è autonomo, e intervenire sul collegio è una cosa molto delicata…”. Interventi mirati sempre a evitare il faccia a faccia in aula con Martelli che, sostiene in pratica Di Matteo, avrebbe potuto contestare a Mancino di averlo avvertito delle “anomale” condotte del Ros. Ma se sono questi gli snodi chiave del presunto compromesso tra Stato e mafia, è difficile comprendere perché ci siano voluti quattro anni di udienze solo per arrivare alla requisitoria di questo processo.