L’arma che permette a Matteo Salvini di alzare la posta sul tavolo delle trattative per il governo e soprattutto di sfidare il Quirinale partendo da una posizione di forza è la stessa che aveva provato a usare, in una precedente fase della crisi e senza gran fortuna, Luigi Di Maio: la cosiddetta "politica dei due forni". Il leghista, a differenza di tutti gli altri attori in campo, può oscillare a piacimento tra l’alleanza di governo con M5S e quella elettorale, incrinata però mai sepolta, con il centrodestra. Di conseguenza è l’unico che può permettersi di affrontare un eventuale ritorno alle urne con la ragionevole certezze di uscire dalla nuova prova meglio che dalla prima su tutti i fronti: con una leadership assoluta sulla coalizione di centrodestra, con uno scarto di voti ben maggiore che in marzo rispetto a Fi, con un totale di voti che potrebbe permettere alla coalizione di arrivare alla maggioranza parlamentare da sola.

Sinora Salvini ha fatto pesare la libertà di movimento a tutto campo all’interno delle trattive con M5S, che sulla carta ma solo su quella sarebbe azionista di maggioranza del governo. Lo ha fatto per impedire l’incarico a Di Maio, nonostante fosse questa la via di gran lunga preferita dal Quirinale, piazzando al suo posto un esponente minore dei 5S. Lo ha fatto per conquistare tre postazioni chiave: gli Interni, l’Economia e il sottosegretariato alla presidenza del Consiglio. Ma lo sta facendo ancora per piazzare la bandierina verde su altre postazioni strategiche, in particolare il mistero delle Infrastrutture.

La novità deflagrante è che la stessa pistola carica è da due giorni puntata contro il capo dello Stato. Pur di evitare la no- mina a ministro dell’Economia di Paolo Savona, considerato del tutto incontrollabile, Mattarella era pronto a consegnare il ministero di via XX settembre al numero due leghista, Giorgetti, con tanto di semaforo verde già concesso da Mario Draghi in persona. Salvini non si accontenta. In parte perché preferisce che Giorgetti si muova su altri fronti, ma in in buona parte perché dall’esito della sfida sull’Economia dipenderanno i rapporti di forza che regoleranno in futuro le relazioni tra governo e presidenza della Repubblica.

Consapevole del peso materiale e simbolico assunto dalla vicenda, giovedì il Quirinale ha diramato quella ' comunicazione informale' durissima, che denunciava il tentativo di diktat ai danni dei presidenti della Repubblica e del consiglio da parte delle forze politiche che vogliono ' imporre' il loro candidato. Salvini ha ignorato il monito, ha fatto sapere, e ha confermato anche ieri, di essere pronto a far saltare tutto in caso di veto contro il professor Savona. Una mossa estrema, decisa nella consapevolezza di quanto difficile sia per Mattarella retrocedere, a questo punto, senza perdere la faccia e buona parte del potere contrattuale. Una mossa, quindi decisa ( sempre che il leghista la mantenga sino all’ultimo) con la determinazione di far valere con massima brutalità i rapporti di forza. Il prezzo di un doppio irrigidimento sarebbero infatti elezioni in autunno, o al massimo in primavera, che Salvini non solo ritiene di essere in grado di affrontare con successo, ma che sarebbero anche segnate dalla denuncia delle ' ingerenze' di Bruxelles per il tramite del Quirinale.

Come andrà a finire, se con il cedimento di uno dei due contendenti o con il fallimento del tentativo Conte, per il momento è impossibile dirlo. Di certo c’è una sola via per evitare un fronteggiamento tale da non lasciare spazio alla mediazione. Passa per la ' presa in carico' della faccenda da parte del presidente incaricato. Del resto non è difficile leggere nel ' messaggio informale' di giovedì proprio un richiamo a Conte perché faccia valere le proprie prerogative costituzionali, cassando lui la candidatura Savona e tirando così fuori d’impaccio il Quirinale.

Sarebbe in effetti questa la via maestra. In questo caso però è difficilmente percorribile. Per fronteggiare i capipartito ci vorrebbe infatti un premier dotato di notevole forza politica, della quale invece Conte, insediato dai due leader, difetta completamente. Per seguire quella via, in questa come in molte prevedibili occasioni future, Mattarella avrebbe dovuto forzare sul nome del premier più che su quello di qualche singolo ministro. Ha scelto di non farlo, sempre per evitare il rischio di un fallimento in extremis e di elezioni a breve inevitabili. Ma a questo punto riequilibrare una partita in cui il leader leghista si è assicurato le postazioni di maggior vantaggio non sarà affatto facile.