«Tre giorni in cui ogni giorno è stato peggiore del precedente»: così Nasrin Sotoudeh, avvocata per i diritti umani, racconta l’incubo seguito all’attacco al carcere di Evin, a Teheran. L’obiettivo, colpito con precisione dalle forze israeliane, è uno dei luoghi più emblematici della repressione politica della Repubblica islamica.

Ma l’attacco è solo l’inizio. «Le notizie che sono arrivate dopo sono state ancora peggiori: la presenza massiccia di scarafaggi e cimici, la mancanza di strutture igieniche adeguate, acqua salmastra usata per tè e cibo, aria malsana da respirare — e oggi, il taglio persino di quelle telefonate di pochi minuti che potevano fare. Oggi non sono nemmeno riusciti a contattarci», ha scritto Sotoudeh sui suoi profili social. Lei in quella prigione è passata più volte, come oppositrice del regime. Ora, in quelle stesse celle, si trova suo marito, Reza Khandan.

Il “reato” contestato a Khandan è aver prodotto delle spille con la scritta: “Mi oppongo al velo obbligatorio”. Un gesto di resistenza pacifica, che per le autorità iraniane è valso una condanna a tre anni e mezzo di carcere. La pena, inizialmente sospesa, è stata riattivata a dicembre scorso. Non fu un arresto casuale: in quei giorni, il Parlamento iraniano si preparava a votare una legge sul velo e la castità che prevedeva pene severissime — fino alla pena di morte — per le donne non conformi all’obbligo del velo. Sotoudeh, insieme ad altre attiviste, si è opposta pubblicamente a quella norma, annunciando proteste nel caso in cui fosse approvata. La mobilitazione fu tale che il Parlamento fece marcia indietro. Ma proprio il giorno in cui quella legge sarebbe dovuta entrare in vigore, la polizia ha fatto irruzione nella casa dei due attivisti e ha portato via Reza, riesumando la vecchia condanna già archiviata — un pretesto, secondo la sua famiglia, per colpire indirettamente Nasrin.

«Abbiamo superato il terzo giorno dell’incubo dell’attacco al carcere di Evin – ha scritto ancora l’avvocata –. Tre giorni dal momento dell’assalto, dalle voci dei detenuti che cercavano riparo sotto i calcinacci, che cercavano di rassicurarci dicendo che stavano bene, fino alla notizia del dispiegamento delle forze speciali nel cortile del carcere e del trasferimento notturno dei prigionieri al carcere di Teheran Grande — un luogo di esilio, con le caviglie incatenate, per crimini mai commessi. Il “reato” di uno era insignificante; quello di un altro era semplicemente svolgere il proprio dovere di avvocato. Il “reato” di Reza era aver prodotto spille con la scritta “Mi oppongo al velo obbligatorio”». Tutti loro, prosegue, avevano scritto lettere alle autorità giudiziarie denunciando di sentirsi in pericolo e chiedendo la scarcerazione in base alle disposizioni previste in stato di guerra. Ma nessuno ha adempiuto al proprio dovere legale. «Fino a quando non è successo esattamente ciò che temevamo», conclude.