Gli esponenti del centro destra hanno ragione: il festival di Sanremo non è affatto uno show bipartisan e, attorno alla sarabanda delle canzonette, è stato costruito uno spettacolo che è l’esatto opposto della loro cultura politica.

Costituzione antifascista, diritti delle donne, questioni di genere, migranti, detenuti e antirazzismo, mai menù fu così indigesto per un nazional-conservatore: non è questa l’Italia uscita dalle urne lo scorso 25 settembre, non è questo il Paese che vive nel loro immaginario.

Comprensibile il disagio di sentirsi quasi in terra straniera nell’assistere ai monologhi di Benigni, Fedez, Ferragni, Egonu con quel testo e sottotesto polemico costantemente ostile al governo di Giorgia Meloni. Nulla di sovversivo e peraltro condito con la sua buona dose di conformismo, ma quanto basta per far saltare i nervi al ministro della cultura Sangiuliano che chiede agli organizzatori del festival di dedicare uno spazio ai martiri delle foibe: «Rispetto la loro autonomia, ma sarebbe importante». Roba da non crederci, il governo vuole un intervento riparatorio per rimettere in pari il counter dei morti (le vittime del fascismo e quelle dell’antifascismo) in una surreale par condicio figlia soltanto del suo smarrimento culturale. E perché no Marinetti e il futurismo, Indro Montanelli e Ezra Pound?

A salvare la digestione c’è stata la presenza del presidente Mattarella al teatro Ariston con tanto di inno di Mameli eseguito dall’orchestra, anche la “prima” di un Capo dello Stato a Sanremo è stata architettata con sottile crudeltà nei confronti della maggioranza politica che controlla il cda della Rai il quale non è stato avvertito.

Ha fatto tutto Lucio Presta, il supermanager e produttore che cura l’immagine del conduttore e direttore artistico Amadeus (ma anche di Benigni e Gianni Morandi), e molto vicino a Matteo Renzi.

Uno sgarbo senza alcun dubbio premeditato, ma anche una prova di forza per sbattere in faccia alla destra che Sanremo “non è cosa loro”, che il mondo dello spettacolo e della cultura in senso lato è quasi un contropotere e che il festival dei fiori è un po’ la nostra Hollywood, la “fabbrica dei sogni” americana che nel tempo è diventata una roccaforte progressista con le sue star, attori, attrici e registi, sempre pronte a polemizzare con i repubblicani e a intervenire su qualsiasi questione, dai diritti civili all’ambiente, dalla guerra all’economia.

Certo fa sorridere pensare che il pacato e misuratissimo Amadeus, che è la prosecuzione di Pippo Baudo con altri mezzi, possa vestire i panni dell’antagonista al governo di centrodestra, ma tant’è.

E quando Matteo Salvini ha voluto spiegare a tutti che lui il festival non lo guarda perché è il trionfo della sinistra radical chic e che ha di meglio da fare. Amadeus ha risposto con una freccia intinta nel veleno durante la conferenza stampa di mercoledì scorso: «Sono quattro anni che Salvini critica Sanremo, se non gli piace può tranquillamente cambiare canale e guardarsi un bel film con i ragazzi, lo dico senza polemica e gli auguro una buona serata.

In uno slancio di fierezza forse dovuto alla trance agonistica di questi giorni il conduttore ha replicato anche al pur bravo direttore di Rai 1 Stefano Coletta che si era dissociato dal monologo in cui Fedez aveva attaccato il vicemnistro delle infrastrutture Galeazzo (sic) Bignami, mostrando una foto in cui è vestito da ufficiale delle SS, «È importante assumersi la la responsabilità di quel che si dice, ma sono un difensore della libertà di parola come spiega l’articolo 21 della nostra Costituzione».

È davvero curiosa l’evoluzione del festival nel corso dei decenni: negli anni 70 veniva snobbato dai cantautori impegnati, De Gregori, Guccini, De André mai avrebbero partecipato a quel carrozzone nazionalpopolare, decisamente qualunquista e inevitabilmente governativo.

Una kermesse strapaesana lontana dalla musica “colta”, ma anche dalle tendenze musicali dei giovani. Poi le cose sono cambiate, in una dissolvenza incrociata il festival ha mantenuto parte delle sue vecchie caratteristiche provinciali ma si è aperto sempre di più alla cosiddetta modernità.

L’edizione del 1999 condotta da Fabio Fazio ha segnato una cesura, con tematiche e ospiti di sinistra come il regista Michael Moore o l’ex presidente dell’Urss Mikhail Gorbaciov. Ma quella sembrava una specie di festa dell’Unità in versione patinata, con la chiara impronta dei Ds di Massimo Dalema, all’epoca presidente del Consiglio. Mai avrebbe potuto tenere banco un monologo come quello della bravissima Francesca Fagnani che ha portato sul palco dell’Ariston le voci dal carcere minorile di Nisida, lanciando una stoccata al procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. «Un autorevole magistrato ha detto che è contrario a uno schiaffo in carcere o in caserma, il detenuto non deve essere toccato nemmeno con un dito. Sapete perché? Non deve passare per una vittima. Ma non è così, perché non va picchiato perché lo Stato non può applicare le leggi della sopraffazione e della violenza che usano le persone che lei arresta”