È un’icona della lotta non violenta, un simbolo della democrazia e dei diritti umani ma anche del coraggio e della passione politica, un po’come il Mahatma Gandhi o Nelson Mandela. Chi mai potrebbe gettar fango su Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace e Consigliera di Stato della Birmania, una donna che con le sue battaglie pacifiste è riuscita a piegare praticamente da sola la vecchia giunta militare di Rangoon? La sua stessa immagine, la figura esile, lo sguardo intenso, il sorriso radioso, sembra una rappresentazione allegorica della forza interiore e della dignità umana contro i soprusi della tirannia.Invece, anche le biografie più virtuose e i pedigree più nobili possono perdersi nel cinismo della realpolitik; nel caso di San Suu Kyi pesa come un macigno la questione dei Rohingya, minoranza etnica di fede musulmana (1,3 milioni in tutta la Birmania) che da decenni subisce violenze e vessazioni da parte dei nazionalisti buddisti, una condizione denunciata a più riprese da ong, associazioni umanitarie e dalle stesse Nazioni Unite. Assalti ai villaggi, abitazioni date alle fiamme, esecuzioni sommarie, veri e propri pogrom per un gruppo a cui non è riconosciuta la cittadinanza, il diritto a sposarsi, non è fornita l’assistenza sanitaria e alimentare, non è concesso di accedere al mercato del lavoro ed è vittima di una feroce pulizia etnica, in particolare nello Stato occidentale di Rakhine. Una situazione insostenibile che purtroppo non è cambiata con il passaggio dalla dittatura alla democrazia, un passaggio salutato dal pianeta intero, ma di sicuro non dai Rohingya che vivono in una cappa di repressione senza tempo.Al contrario San Suu Kyi non ha mosso un dito per fermare quelli che Human Right Watch definisce senza giri di parole «crimini contro l’umanità». Un disinteresse che è frutto di precisi calcoli politici in un paese in cui il 90% della popolazione è di fede buddista ed è molto sensibile ai richiami nazionalisti, questione di non irritare l’opinione pubblica e i sentimenti islamofobi molto radicati nella società birmana. Per questo San Suu Kyi si è sempre rifiutata di riconoscere anche nominalmente la minoranza musulmana: non li ha mai chiamati Rohingya ma «bengali», una definizione razzistoide rifiutata dalla comunità internazionale che viene usata regolarmente dai birmani per apostrofare gli immigrati illegali del Bangladesh. E quando lo scorso aprile è stata nominata Consigliera di Stato (una specie di super primo ministro) non ha fatto nulla per concedere quei diritti che la giunta militare ha sempre negato.Così, tra un mutismo e l’altro ieri è arrivato un rapporto dell’Alto commissario per i diritti umani dell’Onu Zeid Ra’ad Al Hussein che accusa gli imbarazzanti silenzi di San Suu Kyi: nemmeno una parola di solidarietà nei confronti dei Rohingya, un accenno, una vaga promessa, tanto che le Nazioni Unite potrebbero presto approvare una risoluzione di condanna del governo birmano per complicità in crimini contro l’umanità: «In Birmania la minoranza etno-religiosa dei Rohingya è vittima di violazioni sistematiche dei diritti fondamentali». Parole che non sono piaciute affatto al portavoce del governo di Rangoon U Zaw Htay, il quale rifiuta con fermezza l’appellativo di crimini contro l’umanità per la discriminazione della minoranza musulmana.Il silenzio di San Suu Kyi sembra dunque una cinica concessione al vento di intolleranza xenofoba alimentato dagli ultranazionalisti, anche se c’è chi giura che l’eroina della democrazia birmana sia già inciampata in gaffe razziste verso i musulmani verso i quali ha sempre avuto un atteggiamento per lo meno equivoco. L’ultimo episodio riguarda un fuori onda di un’intervista concessa lo scorso marzo a Mishal Husain, giornalista della Bbc di chiare origini pakistane: «Nessuno mi ha detto che stavo per essere intervistata da una musulmana! », ha esclamato con rabbia il premio Nobel per la pace.