Samuel Paty insegnava storia e geografia in un liceo di Eragny- sur- oise, sobborgo “difficile” alla periferia nord est di Parigi. I colleghi e la gran parte dei suoi studenti lo ricordano come una persona gentile e appassionata del proprio lavoro, che spesso portava in classe temi di politica e attualità e che amava discutere e confrontarsi con i ragazzi e le ragazze che frequentavano i suoi corsi. Mai avrebbe immaginato che la sua passione civile lo avrebbe portato a morire nel più orribile dei modi e che il suo tragico assassinio avrebbe scosso la Francia, ancora una volta colpita dal terrorismo di matrice religiosa.

Il 16 ottobre del 2020 mentre tornava verso casa Paty viene infatti aggredito da Abdoullakh Anzorov, un 18enne russo di origine cecena che, al grido di Allah u’ akhbar gli sferra 17 coltellate e poi lo decapita senza pietà: «Il profeta è stato vendicato!». Dopo qualche minuto Anzorov è intercettato da una pattuglia di polizia che gli ordina di gettarsi a terra; in preda all’adrenalina si scaglia contro gli agenti che lo abbattono a colpi di pistola.

La famiglia di Anzorov era fuggita dalla Russia nel 2003, e si era trasferita in Francia nel 2006 dopo tre anni di asilo politico in Polonia. Abdoullakh non era certo un giovane tranquillo, era stato sospeso dal suo liceo professionale a causa di una violenta rissa con alcuni ragazzi maghrebini, nel 2018 aveva abbandonato gli studi e da allora lavorava in un cantiere edile come operaio e la sera frequentava una palestra di arti marziali.

I genitori sapevano che aveva un carattere complicato e avevano notato che negli ultimi tempi amava citare passi del Corano criticando lo scarso fervore religioso della famiglia, ma nessuno tra parenti e amici poteva minimamente supporre che quel giovane in difficoltà si sarebbe trasformato in un feroce assassino, un terrorista fai- da- te, la sua radicalizzazione era avvenuta quasi in sordina, anche se i sintomi della deriva fanatica erano ben visibili da tempo. Non frequentava le ragazze, odiava l’immagine «lussuriosa» che la società occidentale dà della donna, mentre il suo account twitter era stato chiuso per messaggi estremisti, che incitavano all’odio e all’intolleranza verso gli “infedeli”.

Ma il coltello con cui Anzorov ha ucciso il povero Paty è stato solo l’ultimo anello di una catena angosciosa di eventi che hanno portato all’omicidio del professore. Tutto comincia un mese prima dell’attentato, quando il professore propone agli alunni una lezione sulla libertà d’espressione, partendo dalla strage dei disegnatori di Charlie Hebdo, massacrati da un commando jihadista nel 2015 a causa delle vignette “blasfeme” sull’islam pubblicate qualche anno prima.

Una studentessa racconta alla sua famiglia che Paty, prima di mostrare i disegni incriminati, avrebbe chiesto agli studenti musulmani di uscire dalla classe per poi mostrare immagini del profeta «completamente nudo». Il padre, folle di rabbia, scrive un post su Facebook in cui attacca l’insegnante, poi si rivolge a Abdelhakim Sefrioui un militante islamista radicale molto noto sul web. Sefrioui traccia la linea: accompagnerà alcuni genitori all’incontro che chiedono con i dirigenti scolastici, pretendendo l’immediata radiazione di Paty, in caso contrario avrebbe organizzato una grande manifestazione davanti al liceo e avrebbe denunciato la scuola al Collettivo contro l’islamofobia (CCIF). Una richiesta senza esito: preside e insegnanti difendono chiaramente Paty, spiegando che il suo comportamento non è stato per nulla offensivo o discriminatorio e invitano le famiglia a un chiarimento con lo stesso professore. Non ci sarà nessun chiarimento: Sefrioui lancia una violentissima campagna social contro Paty, lo definisce un «malato di mente», un «razzista», una «carogna», pubblicando su internet il suo nome, il suo numero di telefono e il suo indirizzo. Migliaia di persone commentano, insultano e minacciano l’insegnante, circolano video su youtube che invitano a «punire» Paty, nascono gruppi WhatsApp e Telegram. Quanto basta per lanciare l’allarme, l’ennesimo ignorato dalle autorità francesi.

Uno degli aspetti più inquietanti dell’intera vicenda riguarda la studentessa che per prima ha accusato Paty di comportamenti “islamofobici”: quel giorno era infatti assente dalla scuola come risulta dal registro di classe: era stata sospesa per motivi disciplinari e dunque si era inventata tutto, rimasticando qualche informazione riportata dai compagni. Mai il professore aveva chiesto ai giovani di confessione musulmana di uscire dalla classe, aveva soltanto suggerito di girare la testa per qualche secondo a «chiunque» poteva sentirsi offeso da quelle vignette, una precauzione rispettosa.

La piccola bugia dell’adolescente mette però in moto un meccanismo diabolico, una vampata di odio collettivo dalle conseguenze incontrollabili. La “notizia” giunge infatti alle orecchie di Anzorov: pur vivendo a ottanta chilometri da Eragny- sur- oise, il giovane russo è molto motivato, decide di dare una lezione al prof. Quattro giorni prima dell’omicidio sbarca davanti al liceo promettendo trecento euro a chi gli avesse dato informazioni su Paty, alcuni giovani accettano il deal, gli forniscono una precisa descrizione fisica del professore e una lista delle sue abitudini, altri si offrono addirittura di accompagnarlo nel pedinamento per individuare la preda senza margini di dubbio. «Diceva che lo avrebbe costretto a chiedere scusa davanti a una videocamera, che voleva umiliarlo che non gli avrebbe fatto del male, al massimo uno schiaffo o qualche spintone», ha raccontato in lacrime uno dei ragazzi agli agenti di polizia che lo hanno interrogato dopo l’omicidio.

Ieri, al tribunale dei minori di Parigi, si è aperto il primo processo sulla morte di Samuel Paty, alla sbarra sei ragazzi, sono accusati di calunnia e di avere svolto «un ruolo centrale» nella morte del 47enne insegnante di storia e geografia. Vista la loro giovane età rischiano una pena massima di due anni e mezzo di reclusione.

Il processo agli altri otto adulti coinvolti nel caso, invece comincerà l’anno prossimo; tra gli imputati Brahim Chnina, il padre della ragazzina all’origine della tragica catena di diffamazione e naturalmente Abdelhakim Sefrioui, il predicatore islamista che ha lanciato e alimentato la campagna d’odio sul web. Sono accusati di «associazione a delinquere» e «complicità in attentato terrorista», capi di imputazione gravissimi che possono essere puniti con trent’anni di prigione e persino con l’ergastolo.