Certo, cambiare è cambiata. Sarà merito della suasion del Colle. O in virtù dei suggerimenti di Jim Messina. Oppure frutto della maturata consapevolezza renziana che la muscolarità in politica è sempre un'arma a doppio taglio. Fatto sta che la modalità comunicativa di Matteo Renzi ha subito una sostanziale modifica, una sorta di strutturale conversione a U. E poiché gli atteggiamenti espressivi di un capo di governo, le specificità con le quali si rivolge alla pubblica opinione, non sono elementi che attengono alla sfera dei comportamenti privati bensì fatti politici, è sul versante politico che vanno valutati nella loro incidenza sugli equilibri complessivi e per le conseguenze che producono.Il perché il premier sia passato in maniera repentina da un profilo gladiatorio, fatto di sfide continue e dissacranti dentro e fuori il Pd con tratti a volte addirittura provocatori, è intuitivamente semplice da comprendere: perché quel sistema non funzionava più. I risultati delle Amministrative; il calo continuo di consensi; l'affievolimento fin quasi alla scomparsa del tocco magico nel rapporto con i cittadini e il crunch della narrazione renziana come piedistallo di successo, hanno infatti sgretolato giorno dopo giorno l'allure che circondava il capo del governo. Un cambiamento che impatta di brutto con il passaggio politico più importante: la battaglia referendaria sulle modifiche costituzionali. Su quel fonte Renzi aveva giocato tutto: la certificazione definitiva della sua supremazia e perfino il futuro, anche personale. Un azzardo. Che per i mutati rapporti di forza nel Paese rischiava di affondare i reiterati sogni di gloria, producendo un buco nero proprio al centro della galassia politica italiana.Di qui la frenata. Meglio abbassare i toni, assumere atteggiamenti più felpati, strutturare un profilo il più possibile istituzionale, lontano dalle beghe politiciste e dalle belluinità da rodeo di Palazzo.Tutto questo con un ben definito obiettivo: "spersonalizzare" la battaglia referendaria; farla diventare un confronto anche aspro ma indirizzato ai contenuti; togliergli l'aura di ordalia dopo la quale l'universo esplode e chi s'è visto s'è visto. Era stato proprio Renzi a impostare la battaglia sul crinale del "dopo di me il diluvio" e "se perdo mi dimetto"? Fa niente: gli italiani, è noto, sono di memoria corta.Orbene spersonalizzare è un concetto che in sè è talmente etereo da non significare praticamente nulla. Infatti nessun elettore si recherà alle urne, a ottobre o novembre che sia, chiedendosi se il suo Sì o No sarà personalizzato o meno. Nel corrente lessico politico però succede il contrario: risulta cioè determinante. Per capirlo, quel concetto bisogna tradurlo. Precisamente così: spersonalizzare vuol dire stabilire se in caso di sconfitta (con la vittoria la questione non sussiste) Renzi debba rimanere o no a palazzo Chigi. Si tratta, come si capisce, di un passaggio fondamentale, in completo rovesciamento rispetto all'impostazione iniziale del presidente del Consiglio. Rovesciamento che se ne porta appresso un altro: inserire nella compagna referendaria anche il convitato di pietra della revisione alla radice dell'Italicum. Renzi era decisissimo a tener fuori dalla contesa la riforma elettorale: il pressing, soprattutto di una parte di establishment di sinistra, lo vuole invece assolutamente inserire nient'altro che per guadagnare un motivo valido per votare Sì.Roba grossa, come si capisce.Anche perché essendo la politica un insieme di vasi comunicanti, la spersonalizzazione così intesa - e cioè se Renzi debba comunque restare dov'è - riguarda e divide pure chi vede il presidente del Consiglio come fumo negli occhi. Prendiamo, per capirci, il centrodestra. Stefano Parisi, adottando forse suggestioni provenienti da Fedele Confalonieri, prima ancora di riceve l'incarico berlusconiano ha detto che Matteo sta bene dove sta fino al 2018. Peccato che la linea ufficiale (?) di FI, peraltro stabilita direttamente dall'ex Cav in una delle sue infinite piroette, penda in direzione contraria: votare No al referendum per cacciare Renzi e insediare un esecutivo di unità nazionale, sostenuto da Pd e FI e chi altro ci sta, per cambiare appunto l'Italicum e portare il Paese alle urne a scadenza naturale. Potrebbe lo stesso Renzi guidare un simile governo dopo essere stato sconfitto nella sua battaglia più importante? Inverosimile: sarebbe una sorta di Re Travicello nella mani di Silvio. O sotto botta della sinistra dem, che infatti vuole che resti sulla sua poltrona: come bersaglio. Per non parlare dei Cinquestelle, che pure intendono cacciare Renzi con il No referendario ma hanno accortamente messo la sordina alla richiesta di elezioni anticipate subito. E infine i centristi di Alfano, che sono fortemente schierati per il Sì ma per bocca del ministro dell'Interno medesimo occhieggiano al centrodestra verso il quale ci sarebbero possibili condizioni di dialogo: un classico modo per tenere il piede in due staffe e trarre vantaggio in caso di vittoria sia dell'uno che dell'altro schieramento.Dunque si ritorna al quesito iniziale: spersonalizzare, nel senso descritto, giova o no al presidente del Consiglio? Gli serve o no per prevalere nello scontro referendario? La risposta è per forza plurima. Dal punto di vista strettamente politico, il nodo di fondo non cambia: perché a settembre la campagna elettorale referendaria si infiammerà e la permanenza o meno di Renzi a palazzo Chigi in caso di sconfitta ne costituirà comunque l'elemento centrale e discriminante. Dal punto di vista del rimbalzo sui cittadini ai fini di orientarne il voto, si tratta di un indefinito. Pur se rimane difficile immaginare milioni di italiani appassionati e impegnati a discettare se il cambiamento del Titolo V sia giusto e opportuno, o se sia giusto e opportuno che i nuovi senatori abbiano competenza sulla politica europea. Presumibilmente chi andrà ai seggi farà calcoli diversi, molti dei quali concentrati proprio su Renzi. In fondo si conferma un teorema semplice: la politica cammina sulle gambe degli uomini. Che spersonalizzati non sono. Nè possono esserlo mai.