«Non è la maggioranza che vuol mandare a casa Draghi - ha infatti spiegato Ainis - è Draghi che vuol mandare a casa la sua maggioranza». Però, come abbiamo scritto ieri su queste pagine, il voto di fiducia è in buona sostanza la misura quantitativa di una situazione qualitativa: la rappresentazione numerica di una condizione politica. Infatti, nella ormai lunga storia repubblicana, punteggiata di infiniti governi, solo due sono caduti su un voto di fiducia, il Prodi I e il Prodi II. E fu in entrambi i casi quel presidente del Consiglio a voler parlamentarizzare la crisi, a sancire la rottura dei rapporti all’interno della coalizione di maggioranza, l’Ulivo nel primo caso, l’Unione nel secondo. E per evidenti motivi di trasparenza. Si trattava, in entrambi quei due governi, di vere coalizioni, e nate ponendosi davanti all’elettore come candidate al governo del Paese, tanto che alle politiche in entrambi i casi si stilò un dettagliato programma di governo.

Il caso di oggi, il caso del governo Draghi, è invece da questo punto di vista profondamente diverso, essendo l’esecutivo oggi in crisi nato per decisione del presidente della Repubblica, che per risolvere la crisi del Conte-bis incaricò una personalità di grande prestigio e profilo tecnico di cercare «il più ampio consenso parlamentare possibile» per un governo che affrontasse due emergenze, pandemia e predisposizione dell’uso dei fondi europei Recovery. Dunque non un governo di unità nazionale, e nemmeno un governo tecnico (come comunemente si sente definire il governo Draghi): ma un governo di scopo, o del presidente.

Le due crisi che videro poi Prodi sfiduciato in Parlamento corrispondevano a profonde crisi politiche all’ interno delle coalizioni di governo. Nel primo caso, a ottobre 1998, Rifondazione Comunista di Fausto Bertinotti votò contro la finanziaria del suo governo - quel partito avrebbe voluto in Italia quel che era in progetto in Francia, la settimana lavorativa di 35 ore- ma questo era solo l’approdo di una lunga serie di distinguo e duelli non tutti in punta di fioretto con il governo, a cominciare dalla contrarietà alla missione militare in Albania: Prodi cadde per un solo voto. Anche in quel caso vi fu una scissione: da Rifondazione si separano i cossuttiani, dando vita ai Comunisti italiani che, assieme ai “quattro gatti vandeani”, come il fondatore Francesco Cossiga definì il partitino appositamente nato, fecero da base al governo D’Alema: c’era alle viste la guerra dei Balcani, si disse che prima di lasciare Palazzo Chigi Prodi avesse già firmato l’activation order della NATO che conteneva la partecipazione italiana, e non si poteva certo andare al voto.

Nel secondo caso, la carsica erosione dell’Unione fu fatta esplodere da Clemente Mastella, che tolse il sostegno della sua formazione politica al governo (quando avrebbe invece potuto semplicemente dimettersi da ministro della Giustizia) per protesta contro provvedimenti presi dall’autorità giudiziaria contro sua moglie. Prodi salì al Colle chiedendo la parlamentarizzazione della crisi, e alla fine in Senato gli mancarono 4 voti: a sinistra quello di Franco Turigliatto, poi quello di Mastella e del suo collega di partito Tommaso Barbato, ma soprattutto quello di Lamberto Dini, e poi anche di Domenico Fisichella. Mastella e Dini si ricollocheranno poi successivamente in ambiti di centrodestra, il costituzionalista monarchico ed ex missino Domenico Fisichella troverà poi tempo dopo invece casa nella Margherita.

In entrambe quelle crisi di governo, la conta parlamentare che Prodi volle per evidenti e preziose (per la democrazia) ragioni di trasparenza, era stata preceduta da infinite prese di distanza, dibattiti interni alla coalizione di grande asprezza, e perfino di alleati ( per il secondo governo Prodi furono prima Bertinotti e poi Dini) che spiegavano in lunghe interviste o addirittura in Parlamento che l’azione dell’esecutivo era inefficace e dunque il governo moribondo. E questo per ricordare che il voto di fiducia è sempre la concretizzazione quantitativa di una condizione qualitativa: è la politica quel che sostiene un esecutivo.

Se prendiamo un caso recente, tra le mille crisi extraparlamentari italiane, il 14 febbraio 2014 fu una Direzione nazionale del Pd a detronizzare Enrico Letta, votando un ordine del giorno di partito nel quale si passava Palazzo Chigi all’allora segretario Pd Matteo Renzi (con una procedura, va detto, che è tipica del cosiddetto Modello Westminster, e molto meno delle democrazie parlamentari). Enrico Letta diede le sue dimissioni al presidente della Repubblica, ma non chiese di verificare e confermare la decisione del suo partito con un voto di fiducia parlamentare. Cosa sarebbe potuto accadere se lo avesse fatto, sotto il profilo politico? Magari avrebbe avuto la fiducia, perché forse alla chiamata di voto nominale molti parlamentari del Pd non avrebbero confermato la scelta del partito, ma - ecco il punto politico- avrebbe dovuto governare contro la sua stessa forza politica, avendola oltretutto collaborato a spaccarla. Un’assurdità, se si ha un livello alto di leadership e capacità politica.

Ecco dunque cosa è un voto di fiducia non alla nascita (come prevede la Costituzione) ma alla fine di un governo. Qualcosa che aiuta a comprendere e definire tutto il profilo del governo, quasi a raccontare meglio la sua identità e la sua storia, un po’ come sui palcoscenici teatrali dove l’uscita di scena definisce la qualità dello spettacolo anche più della sua partenza. Onore dunque alla trasparenza, al rispetto del Parlamento e delle corrette procedure del modello di democrazia che vige in Italia che ebbe Romano Prodi. Ma è la politica stessa a sconsigliare, in molti casi, la parlamentarizzazione della crisi, per evitare il rischio di intorbidire o ostacolare le fasi successive, e che devono portare a dare un nuovo governo al Paese.

Il caso del governo Draghi, nell’unicum che questo governo rappresenta nella storia repubblicana proprio sotto il profilo della composizione della sua maggioranza - che lungi dall’essere di unità nazionale sembra piuttosto una mésalliance -, è ovviamente il più diverso possibile. Come dicevamo, Draghi i numeri al momento li avrebbe, e forse li avrà: ma aveva cercato di rassegnare le dimissioni perché non vede possibile proseguire la sua azione date le “minacce di sfracelli a settembre”. E proprio per questo Sergio Mattarella lo ha rimandato alle Camere, esponendolo al voto di fiducia: perché la situazione si chiarisca. La situazione politica, intendiamo.