La perversione di certe persone minaccia la nostra società. Se sentissi questa frase in un’intervista per strada, potresti rattristarti, ma poi passare oltre. Ma se queste parole arrivano dall’autorità più alta dello Stato? Allora non è più solo un’opinione: diventa una questione politica. In Turchia, l'omofobia non è più soltanto un pregiudizio personale. Il linguaggio dello Stato è diventato un veleno che alimenta, riproduce e legittima questo pregiudizio. Le persone Lgbt+ oggi vengono prese di mira nelle Università, nei Tribunali, per strada, nelle piazze, persino nelle loro case. Alla base di questa persecuzione c’è la posizione istituzionale e discorsiva dello Stato.

Perché è così importante il linguaggio dello Stato? Perché quando parla lo Stato, parla la legge, la magistratura tace e i media si adeguano. In un sermone del venerdì, l'omosessualità viene dichiarata una “maledizione.” Un ministro del governo definisce i giovani Lgbt+ “pervertiti”. I giovani che partecipano a una marcia del Pride vengono aggrediti — e poi ulteriormente isolati, etichettati come “detenuti”. Questa non è la voce di un cittadino qualsiasi che dice “non li vogliamo qui”. È il linguaggio di un potere che decide chi può vivere qui, a nome dello Stato. E questo linguaggio non si limita a escludere: uccide. Simbolicamente e, a volte, letteralmente.

In questo Paese, quando una protesta viene vietata, la giustificazione è quasi sempre “la sicurezza pubblica”. Ma la sicurezza di chi? Se non di chi marcia, allora di chi? In un Paese in cui uno studente universitario che porta una bandiera arcobaleno è considerato una minaccia, chi è davvero la minaccia? In Turchia, la Marcia del Pride è vietata ogni anno dal 2015. Il motivo ufficiale è sempre lo stesso: l’ordine pubblico. Ma tutti sappiamo qual è il vero “ordine” che temono di disturbare: una visione del mondo eteronormativa, conservatrice e maschilista. Chiunque esista fuori da questa visione viene visto come una “minaccia all'ordine.”

Quando metà di un Paese sceglie di ignorare l’esistenza dell’altra metà, non si tratta solo di una frattura sociale: è una scelta politica. E nella Turchia di oggi, questa scelta ha un nome: cancellare, criminalizzare e, se necessario, mettere a tacere le persone Lgbt+. Un cittadino qualsiasi può dire: “Meglio non provocare”. Ma lo Stato non può dirlo. Perché un giorno, quel serpente non morderà solo le persone Lgbt+: morderà anche le donne, gli aleviti, i dissidenti e, infine, tutti noi. E il nome di quel serpente è sempre lo stesso: odio. Nonostante questo linguaggio e queste politiche oscure, ci sono ancora giovani che si rifiutano di tacere. Ci sono persone che alzano bandiere arcobaleno, che danzano nei campus universitari, che si sostengono a vicenda. Sono loro a rappresentare “l’altra” Turchia — quella che lo Stato sceglie di ignorare. Non chiedono solo uguaglianza. Chiedono anche un futuro democratico per questo paese. Perché in un paese in cui un gruppo non è libero, nessuno lo è davvero.

Il linguaggio dello Stato è uno specchio potente che plasma i suoi cittadini. E oggi, guardando in quello specchio, non vediamo solo persone Lgbt+ escluse — le vediamo sistematicamente perseguitate. Il nostro compito non è distruggere lo specchio, ma ricostruirlo — affinché rifletta qualcosa di più vero, più giusto. Perché la più grande giustizia comincia da chi è stato più messo a tacere.