Bernardo Provenzano era già morto. Lo era già due giorni fa quando, ormai in coma, il giudice di sorveglianza di Milano 2 aveva respinto l’ennesima istanza presentata dall’avvocato Rosalba Di Gregorio affinché il boss di Cosa Nostra venisse scarcerato. Ma i suoi trascorsi criminali e il valore simbolico del suo percorso all’interno della mafia, per il giudice, lo avrebbero esposto ad «eventuali “rappresaglie” connesse al suo percorso criminale, ai moltissimi omicidi volontari dei quali è stato riconosciuto colpevole, al sodalizio malavitoso» del quale era a capo. Provenzano è così rimasto al 41 bis, senza che moglie e figli potessero salutarlo. Il figlio Angelo, lunedì scorso, aveva fatto richiesta di un permesso straordinario, che gli era stato negato. Ed è arrivato proprio ieri, dopo la morte del padre. «I veri detenuti al 41 bis sono i parenti – denuncia ora la Di Gregorio -, il regime di restrizione è stato applicato ai figli e alla moglie impedendogli di poterlo vedere». Le condizioni di Provenzano si sono aggravate venerdì, quando a causa di un’infezione polmonare è entrato in coma irreversibile. Ma il carcere duro, ha dichiarato Roberto Piscitello, direttore generale dei detenuti e del trattamento del ministero della giustizia, «in nulla ha aggravato lo stato di salute di Provenzano: anzi nei due ospedali in cui è stato ha ricevuto cure puntuali ed efficaci». Negli ultimi anni, l’avvocato Di Gregorio ha presentato tre istanze di revoca del carcere duro e tre di sospensione dell’esecuzione della pena. Alle prime avevano dato parere favorevole le Procure di Palermo, Firenze e Caltanissetta, ma si sono incagliate poi nel parere della Direzione nazionale antimafia. Diverse perizie, nel corso del tempo, hanno confermato la gravità delle sue condizioni: non era più ricettivo, incapace, dunque, di comandare e inviare messaggi. Il 12 maggio del 2012 le videocamere del carcere di Parma lo avevano immortalato nella sua cella intento a infilarsi un sacchetto in testa. Non un tentativo di suicidio, secondo i suoi legali, bensì i segni che non ci stava più con la testa. A dicembre dello stesso anno cadde riportando un ematoma al cervello. Entrato in coma e operato, non si è più ripreso. Il gip lo ha anche dichiarato incapace di prendere parte in maniera cosciente al processo sulla trattativa Stato-mafia. Le patologie di cui soffriva sono state definite dai «plurime e gravi di tipo invalidante». Non parlava più, faticava a muoversi. Ma la giustizia italiana non ha ceduto di un millimetro. Così, nel 2013, la famiglia si era rivolta alla Corte europea dei diritto dell’uomo, denunciando l’incompatibilità del suo stato di salute col regime del 41 bis. A gennaio 2015, il Tribunale di sorveglianza di Roma confermava l’esigenza di trattenerlo lì per questioni di sicurezza pubblica, «sussistendo il pericolo di continuità di relazioni criminali» con Cosa Nostra. A settembre, invece, la Cassazione giustificava il carcere duro proprio con la necessità di assicurargli cure adeguate. Il figlio Angelo, nominato curatore speciale del padre, tempo fa aveva anche rilasciato un’intervista shock: «anche un pluriergastolano ha diritto di essere trattato come un essere umano – aveva detto a Repubblica -. Se poi l’esistenza di mio padre dà fastidio, qualcuno abbia il coraggio di chiedere la pena di morte, anche ad personam». Ma era già morto, ribadisce la Di Gregorio, che ha appreso della morte del boss mentre era in aula a Caltanissetta per il Borsellino quater, tramite un sms inviatole proprio da Angelo. Lo era dal momento «in cui è caduto ed è stato operato al cervello. Era un vegetale. Le sue condizioni di salute si erano aggravate da circa 4 anni. Non aveva più reazioni di nessun genere». Intanto il pg di Palermo, Nico Gozzo, è intervenuto a muso duro: lo Stato, polemizza sul suo profilo Facebook, avrebbe potuto far sentire «la differenza tra uno stato di diritto» e «le belve di Cosa Nostra, che le regole le fanno solo a loro uso e consumo, calpestando sempre la vita umana. Ed invece si è voluto continuare ad applicare il 41 bis ad un uomo già morto cerebralmente, da tempo. Con ciò facendo nascere l’idea, in alcuni, che la giustizia possa essere confusa con la vendetta. O che il diritto non è uguale per tutti. E ciò, per me, è inaccettabile». Il senatore Pd Giuseppe Lumia, componente della commissione antimafia, ha invece chiesto di evitare «sontuosi funerali» nella sua città, Corleone, per evitare di trasformare il boss in un mito. Ma il sindaco Lea Savona ha messo le mani avanti: «Oggi si celebra il nostro 25 aprile. Mi opporrò alla possibilità che si celebrino qui i funerali».