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Letta Legge Severino
Per un attimo, subito dopo la sconfitta elettorale, il Partito democratico è sembrato davvero intenzionato a fare i conti con i suoi eterni nodi irrisolti. Per alcuni giorni dirigenti di primo piano come il ministro del Lavoro uscente Andrea Orlando o la vicesegretaria hanno ammesso quel che tutti sanno da anni ma nessuno ammette in pubblico: il Pd è un partito senza identità, con il governo come orizzonte ultimo, tanto diviso da presentarsi più come una coalizione in sé che non come un vero partito tale da potersi proporre come vero asse di una coalizione.
È durata poco. La relazione di Enrico Letta alla direzione nazionale di ieri, per certi versi quasi desolante, è importante non solo perché a parlare è il segretario che condurrà il partito al congresso ma anche perché nelle sue parole si coglie il riflesso di uno stato d'animo del partito nel suo complesso già rovesciatosi e approdato alla minimizzazione. Le elezioni sono state perse per colpa della guerra che ha messo paura agli elettori e li ha spinti verso destra, dell'assenza del campo largo disertato dai presunti alleati senza responsabilità di sorta da parte del Nazareno, di una legge elettorale perfida che il Partito democratico ha cercato invano di cambiare, e questa per la verità suonava davvero un po' grossa, di una corsa al voto improvvisa e accelerata, che ha privato il partitone della possibilità di diffondere la sua nuova strategia sociale che lo avrebbe connotato come partito delle fasce popolari.
Niente paura comunque. Il Partito democratico è un successo e non deve né sciogliersi né cambiare nome: per la verità, stando a Letta, sembra che non debba cambiare proprio niente. Ha alle spalle enormi meriti inclusa la caduta del governo Berlusconi nel 2011, e a tali livelli di addomesticamento della realtà non era mai arrivato neppure Berlusconi. Ha ricevuto dagli elettori il compito di guidare l'opposizione e comunque il risultato di un partito che si conferma seconda forza del Paese, mentre tutti tranne Fratelli d'Italia perdono e di brutto, non si può certo definire catastrofico. Unica correzione di rotta necessaria, quando il governo di destra cadrà, eventualità considerata probabile, il Pd stavolta non deve cadere per la terza volta nella trappola del governo tecnico, o di unità nazionale ecc. ma reclamare le elezioni.
Così, in un colpo solo, Letta ha derubricato la vittoria di un partito che lui stesso denunciava come minaccia per la democrazia a incidente di percorso provocato dalla sorte cinica e bara e dai leader felloni di M5S e Azione. La caduta delle regioni rosse, dove la destra dilaga, un risultato politicamente insignificante delle legge elettorale. L'esistenza di due forze politiche distanti sia dal suo partito che dal centrodestra, una delle quali lo insidia da presso a sinistra e l'altra si prepara a farlo da destra, non pare in prospettiva problema rilevante.
Ma questi sono solo gli effetti di una crisi che affonda le radici nel dna stesso del Pd: quella assenza programmatica di identità che si è rivelata utile per approdare spesso al governo senza aver vinto le elezioni ma che costituisce anche un virus destinato alla lunga a erodere le radici stesse del partito. Cosa spinge i dirigenti del Pd a negare oggi, all'avvio del percorso congressuale, quella malattia fatale che loro stessi riconoscevano e denunciavano appena una decina di giorni fa? La paura di non reggere un momento della verità, moltiplicata dall'attacco dei vecchi leader come Rosy Bindi, che chiedono addirittura lo scioglimento. Accettare la sfida dell'assunzione di un'identità precisa, per un partito che si rivela spesso un cartello di correnti e potentati, può voler dire l'esplosione. È comprensibile che, passato il primo momento dello shock post- elettorale, prenda piede una delle domande più antiche del mondo anche in politica: “Ma chi ce lo fa fare?”.
In effetti, se si guarda solo alle percentuali, la domanda è sensata: il Pd continua a ondeggiare intorno a un 20 per cento di voti che è senza dubbio meno effimero e oscillante delle ondate che nell'ultimo decennio hanno prima premiato e poi punito i 5S, Renzi, la Lega e che ora ingrassano i forzieri di Giorgia Meloni. Ma in politica guardare solo alle percentuali e non al quadro complessivo, lasciarsi rassicurare dagli esiti «non catastrofici» ( come li ha definiti Letta) invece di cogliere il senso politico dei risultati complessivi e cogliere in anticipo gli sviluppi che indicano è sempre una pessima, pur se molto comoda, idea.