Il ministro israeliano della Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, ha voluto festeggiare distribuendo dolci ai colleghi della Knesset, dopo che il Parlamento ha approvato in prima lettura la proposta di legge che introduce la pena di morte per i terroristi che uccidono cittadini israeliani per motivi di «razzismo» e «con lo scopo di danneggiare lo Stato di Israele e la rinascita del popolo ebraico nella sua terra».

Il provvedimento, fortemente voluto dal partito di Ben-Gvir, “Potere ebraico”, ha ottenuto 39 voti a favore e 16 contrari. Saranno però necessari altri due voti favorevoli per l’approvazione definitiva della norma. Ben-Gvir ha commentato su X il risultato conseguito alla Knesset. «Siamo sulla buona strada – ha scritto il ministro dell’ultradestra messianica - per fare la storia. Lo abbiamo promesso e lo abbiamo mantenuto». In una dichiarazione rilanciata dalla televisione qatariota al Araby Hamas ha dichiarato invece che la pena di morte per i terroristi è «un’estensione dell’approccio razzista e criminale del governo sionista e un tentativo di legittimare l’uccisione di massa organizzata dei palestinesi».

Se gli estremisti del governo Netanyahu esultano, i giuristi esprimono preoccupazione e perplessità in merito al primo passaggio parlamentare sulla legge che introduce la pena di morte. Yoav Sapir, professore di diritto penale della “Buchmann faculty of law” (Università di Tel Aviv) teme che la deriva populista, incarnata da certi leader politici, possa arrecare danni all’architettura legislativa realizzata con non pochi sforzi. Il rischio è dietro l’angolo: si farebbe un salto indietro di oltre settant’anni.

Lo Stato israeliano, al termine del mandato britannico sulla Palestina, ha ereditato la condanna a morte per alcuni reati. La svolta è avvenuta nel 1954, quando venne abolita la pena capitale ad eccezione dei casi di genocidio, crimini di guerra, crimini contro l’umanità, crimini contro il popolo ebraico e tradimento militare. Il dibattito pubblico sulla pena di morte si articola su tre livelli: politico, etico e legale.

«Presi singolarmente - rileva Sapir - ma anche messi tutti insieme, tali livelli rafforzano l’idea dell’opposizione verso la pena di morte. Nel corso degli anni, le agenzie di sicurezza come lo Shin Bet, le forze di Difesa israeliane e il ministero della Difesa si sono opposti alla pena di morte, sostenendo che avrebbe danneggiato la sicurezza di Israele. Le considerazioni su questo tema non sono state rese pubbliche in modo completo, ma da quanto emerso in dibattiti pubblici, ad esempio nelle varie Commissioni della Knesset, si può comprendere la preoccupazione che i condannati a morte diventino simboli, martiri il cui sangue deve essere vendicato. Mentre in passato i terroristi si arrendevano per sopravvivere, se in futuro sapranno che la loro condanna è la morte, con tutta probabilità, combatteranno ferocemente».

Il dibattito sulla pena capitale potrebbe provocare una profonda spaccatura nell’opinione pubblica e nella politica. La proposta di legge che ha ottenuto il primo voto favorevole nasconde, a detta di Yoav Sapir, una “trappola”: «L’insistenza dei politici nel promuovere la pena di morte, contrariamente alle raccomandazioni dei funzionari della Sicurezza nazionale, è spesso motivata da limitate considerazioni volte al compiacimento della base elettorale. Alcuni esponenti politici potrebbero addirittura sperare sul fatto che l’iter legislativo non si concluda. Bisogna prestare attenzione a questa trappola politica e al fatto che probabilmente verranno accusati gli avvocati e i funzionari statali per aver ostacolato le scelte politiche».

Israele rischia di fare di finire sullo stesso piano di Cina, Egitto, Arabia Saudita e Corea del Nord. E imitare gli Stati Uniti, che prevedono la pena di morte, non è certo un motivo di orgoglio. «Il massacro e gli orrori senza precedenti che abbiamo vissuto il 7 ottobre – conclude il professor Sapir -, lo shock che ci ha travolti, il dolore e la rabbia che lo hanno sostituito, sono esattamente il tipo di eventi che possono fornire un terreno fertile per idee populiste, irrazionali e disumane che in ultima analisi hanno un impatto a lungo termine sul nostro modo di pensare e di agire. La pena di morte ne è solo un esempio».

Il Parlamento israeliano lunedì notte non si è espresso soltanto a favore dell’introduzione della pena di morte. Nella stessa sessione la Knesset ha approvato in prima lettura una misura che conferisce al governo il potere di chiudere i media stranieri in modo permanente, senza un mandato dei giudici e senza una situazione di emergenza. La «legge al Jazeera», come è stata ribattezzata, ha ottenuto 50 voti favorevoli e 41 contrari. L’emittente del Qatar nel maggio del 2024 è stata costretta a interrompere le trasmissioni dagli uffici in Cisgiordania, perché considerata il megafono di Hamas durante la guerra di Gaza.

La proposta di legge sui media stranieri proviene dal deputato del Likud, Ariel Kallner. In caso di approvazione definitiva, la legge potrebbe però essere considerata incostituzionale. Reporter senza frontiere ha lanciato l’allarme: il governo Netanyahu intende «silenziare le voci» che criticano la coalizione di estrema destra al potere con conseguente «violazione del diritto di espressione e di stampa».

Se alcuni passaggi alla Knesset hanno addolcito il palato di Ben-Gvir, dei suoi sostenitori e di chi vuole silenziare i media, altri in Israele masticano amaro. Il timore che la più grande democrazia del Medio Oriente faccia un salto nel buio non è infondato.