«Finché le persone non le sperimenti, e le tieni esclusivamente all’interno di un mondo chiuso e che magari me lo rendi anche bello, non capirai mai come reagiranno al mondo esterno». Così il Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma spiega a Il Dubbio come il nuovo decreto della riforma dell’ordinamento penitenziario sia più rivolto ad affrontare aspetti settoriali che a ridefinire il corpus complessivo della legge delega n. 103 del 2017.

Cosa c’è di nuovo con il decreto appena licenziato preliminarmente dall’attuale governo? Partiamo dal principio. La legge delega era stata concepita in parallelo con i tavoli degli Stati generali e c’era in qualche modo una corrispondenza tra i singoli punti, ovvero tutte quelle lettere che stanno nel comma 85 della legge delega. Quei punti si tenevano insieme attorno a una certa visione della detenzione. Con il nuovo testo appena licenziato dal governo, mancando di alcuni punti dove non si è esercitato il potere di delega, si perde il senso complessivo. Fermo restando che alcuni dei provvedimenti introdotti, presi singolarmente, hanno una loro validità, quello che manca è una idea complessiva di detenzione. Ad esempio, il fatto che non ci sia più la parte relativa alle misure alternative e la parte relativa all’abolizione degli automatismi che ne precludevano l’accesso, implica una non fiducia complessiva all’adozione delle pene alternative e quindi non assumerle più come elemento strutturante del trattamento penitenziario. Ovviamente non è un assenza per dimenticanza, ma è una evidente interpretazione delle misure alternative da parte del governo come una attenuazione della pena, anziché di una pena alternativa al carcere finalizzata non solo alla riabilitazione, ma anche per dare alla società elementi di conoscenza rispetto al detenuto che intraprende questo percorso. Quindi è chiaro che se si vuole mandare un messaggio di una detenzione dignitosa, ma ferma, le misure alternative non hanno più senso per il governo. Chiariamoci, le misure alternative rimangono, ma non vengono più prese in considerazione come parte integrante del trattamento. Una posizione cultural politica diversa da quella del governo precedente e sviluppata dagli stati generali.

C’è dell’altro? Altro elemento omesso e che mi desta preoccupazione è la mancata considerazione del disagio mentale. Non si aggiorna, ad esempio, l’articolo 147 del codice penale che prevede la sospensione della pena solo per i detenuti con problemi fisici, escludendo quelli con problemi psichici. Così come l’articolo 148 che prevede un invio agli ex Opg ma, dal momento che non ci sono più, i detenuti psichiatrici rischiano di rimanere in carcere. Questa disattenzione al problema psichico che pure non sfugge all’attuale ministro della Giustizia e ai sottosegretari, mi lascia sperare che possa essere una premessa per affrontarlo tramite un altro provvedimento.

Avendo dialoghi istituzionali con il ministro della Giustizia Bonafede, lei ha avuto qualche sentore che almeno sul disagio psichico venga preso in considerazione un provvedimento ad hoc? No, non ho avuto sentori. Ma le posso assicurare che conoscono il problema. Quello che voglio dire è che mentre sulla questione delle misure alternative possono avere una posizione ideologica differente, su questi altri temi mi fido del fatto che conoscendo il problema, prima o poi, si voglia intervenire.

Altra considerazioni? Altro elemento che ho trovato carente è il mancato riferimento alle regole penitenziarie europee. Le regole condivise sono importanti, perché non ci si può limitare esclusivamente nello spazio giuridico del proprio Paese. Noi discutiamo da anni e anni dell’esecuzione penale in ambito europeo, perché servono per favorire anche le estradizioni e quindi avere una certa fruibilità. La loro scelta di omettere questo riferimento, credo che sia una riposta localistica nei confronti dell’Europa. Togliendo questo riferimento, non cambia tanto il decreto in sé, ma il suo humus culturale.

Il governo ha comunque accolto diversi parti del testo originale della riforma. Sì, sui singoli provvedimenti ci sono diversi elementi condivisibili. Certo, alcune delle norme, con qualche piccola correzione, purtroppo finiscono per avere una accezione minimale. Se nel testo originale era indicato un dovere, adesso in alcuni passaggi risulta una possibilità. Quando si passa dall’indicativo presente alle possibilità, le norme perdono di qualità e da adito a diverse interpretazioni. Se io aggiungo ad esempio “anche in questo modo” è chiaro che apro anche alla possibilità che tu non lo faccia.

Possiamo dire che in sostanza la riforma rivista, punta esclusivamente alla dignità all’interno delle carceri? Sì, a questioni dignitose, ma che avvengano dentro. Io penso, invece, che finché le persone non le sperimenti, e le tieni esclusivamente all’interno di un mondo chiuso e che magari me lo rendi anche bello, non capirai mai come reagiranno al mondo esterno. Ciò non garantisce, quindi, nemmeno la sicurezza sociale. Poi c’è anche un’altra omissione che mi ha stupito, visto che è un governo anche giovane.

Quale? Delle tecnologie non ne vedo traccia nel decreto. Come possiamo pensare, nel 2018, che se teniamo le persone in un tempo avulso dai mutamenti tecnologici, queste poi saranno in grado di inserirsi? La sfida vera è quella di accettare il presente e farlo in maniera controllata. Quindi anche accettare l’utilizzo di Skype per comunicare con i familiari. Farlo in maniera controllata, ma senza negare il mutamento del presente. Il decreto originale della riforma, infatti, prevedeva che tutte le comunicazioni, per mantenere il legami familiari, avvenissero con le varie tecnologie.

Lei, nell’ultima relazione, ha definito il 2018 un anno di attesa per quanto riguarda le persone private delle libertà. Ora che la riforma rivisitata sarà definitivamente approvata, che succede? Direi che c’è un pericoloso momento di sospensione, la quale rischia di rifluire in una grande delusione. Mi auguro che vengano inviati dei segnali di attenzione anche attraverso delle visite istituzionali all’interno delle carceri. I segnali possono essere non soltanto sul piano normativo, ma anche su quello dell’ascolto. A dire il vero, anche nel passato - parlo del governo precedente -, si era creata un’attesa eccessiva, come se il decreto sarebbe stato salvifico. In fondo non era eccezionale perché non accolse totalmente le linee guida emerse dagli Stati generali, però complessivamente avrebbe rimesso in sesto determinati meccanismi. Quella di adesso, invece, è una rimessa in regola di alcune parti di questi stessi meccanismi.

Nel frattempo aumentano i suicidi. Rispetto alla questione suicidi, sono molto contrario quando vengono sempre trovate delle colpe interne. A volte ci possono essere, però in generale non si può chiedere al personale di polizia penitenziaria di assumersi la responsabilità di altre assenze. Loro già lavorano in situazioni molto complesse. Penso al suicidio del giovane senegalese al carcere di Marassi. Era senza casa, povero e solo. Chi l’ha mandato in carcere nonostante la lieve entità del reato e perché era abbandonato? Non possiamo dare la responsabilità a chi gestisce la parte finale di altre trascuratezze. C’è una responsabilità innanzitutto del “sistema sociale”, quello giudiziario e a volte, anche il sistema sanitario in carcere. In sintesi c’è una responsabilità collettiva.