Per Obama, Chicago è un po’ come l’Avalon del ciclo di re Artù – l’isola magica. È qui, a Chicago che a vent’anni Obama, che si chiedeva quale sarebbe stata la sua strada nel mondo, ha iniziato a interessarsi di questioni sociali, affiancando la chiesa locale. Qui, quando le prime fabbriche d’acciaio chiudevano.

È qui, al Grant Park, che è tornato nella prima election night del 2008, quando vinse contro W Bush. È qui, al McCormick Place Convention Center, che è tornato nell’election night del 2012, quando vinse contro Romney.

È qui, di nuovo al McCormick, davanti a ventimila persone, che Obama tira le somme dei suoi otto anni di mandato presidenziale e parla di speranze e frustrazioni, di ciò che è stato e di ciò che dovrà essere.

Hello Chicago. Qualcuno di voi era qui anche nel 2004 e nel 2008 e nel 2012. Forse non immaginavate che avremmo messo in piedi tutto quest’ambaradam. Lasciatemelo dire, non siete i soli.

Obama rivendica i suoi otto anni: se otto anni fa avesse detto che sarebbero riusciti a rovesciare quell’enorme recessione, far ripartire l’industria dell’automobile, e dare vita alla più lunga striscia di creazione di posti di lavoro nella storia americana; se avesse detto che si sarebbe aperto un nuovo capitolo delle relazioni con Cuba, che si sarebbe bloccato il programma nucleare iraniano senza sparare un colpo, che si sarebbe colpita la mente dietro l’ 11 settembre; se avesse detto che non ci sarebbero state discriminazioni per le unioni matrimoniali o più sicurezza nelle assicurazioni sulla salute per altri venti milioni di americani – se avesse detto tutto questo, forse qualcuno avrebbe commentato che si stava mirando troppo in alto. E invece, ecco, tutto questo è stato fatto.

Ma Obama sa che le sfide alla democrazia americana sono molteplici. È questo il centro del suo discorso al McCormick Center. La democrazia non richiede uniformità e omologazione. I nostri Padri Fondatori discutevano animosamente le questioni, ma alla fine ricercavano dei compromessi, delle soluzioni. Alla fine, quello che conta al di là delle differenze è che «we’re all in this together, that we rise or fall as one / siamo tutti insieme e insieme ci solleviamo o insieme precipitiamo».

E questo è un momento in cui la solidarietà sociale è minacciata: un mondo sempre più piccolo, con crescenti ineguaglianze, una sfida demografica e lo spettro del terrorismo. Questi fenomeni sfidano la natura stessa della democrazia.

E sarà il modo in cui risponderemo a questi fenomeni che determinerà il futuro. Una cosa è assodata: la democrazia non funziona se non dà a ciascuno la sensazione di avere una opportunità economica. E la più grande sfida alle nostre sicurezze economiche non viene da lontano, da oltreoceano, viene dalle rapide introduzioni degli automatismi robotici nella produzione: è questo che ha reso e renderà obsoleta un’enorme quantità di lavori della middle class. Quindi, dobbiamo immaginare di nuovo un patto di solidarietà sociale che garantisca l’istruzione ai nostri figli, che dia ai lavoratori il potere di associarsi per ottenere salari migliori, che ammoderni la nostra rete di sicurezza sociale alla vita che viviamo adesso. E tutto questo passa per una riforma fiscale che faccia in modo che chi riesce a trarre maggiori vantaggi da questa nuova economia non dimentichi gli obblighi verso il paese che ha reso possibile tutto questo.

La seconda minaccia alla democrazia viene dalle questione razziale. «I’ve lived long enough to know that race relations are better than they were 10 or 20 or 30 years ago / ho vissuto abbastanza per poter dire che le relazioni razziali oggi sono molto meglio di quello che erano dieci o venti o trenta anni fa». ma le leggi da sole non bastano, devono cambiare i cuori, e questo non succede da un giorno all’altro. A volte i cambiamenti nelle abitudini sociali richiedono più generazioni.

È a questo punto che Obama cita Atticus Finch, l’avvocato de Il buio oltre la siepe, il romanzo che ha segnato un intero periodo della recente storia americana. Atticus diceva: «Non capisci una persona finché non cerchi di guardare le cose dal suo punto di vista, finché non entri nella sua pelle e ci cammini». Per chi è nato americano, l’arrivo di altre persone sembra distruggere il carattere di questa nazione e minaccia le loro sicurezze; eppure, la stessa cosa si sarebbe potuto dire di polacchi, irlandesi, italiani. L’America non può temere che nuova gente arrivi qui, l’America non può essere islamofobica. Ci sono i fanatici – e questi sono una minaccia. Un’altra minaccia è rappresentata da quei grandi oligarchi che considerano l’apertura dei mercati in democrazie aperte e la crescita della società civile come una minaccia al loro potere. Il pericolo che rappresentano è più grande di quello di una automobile imbottita d’esplosivo. E questo ci fa dire dell’aspetto centrale. La democrazia è minacciata se la consideriamo come una cosa garantita. Non è così. We, the people, abbiamo il potere. Con la nostra partecipazione, se ci battiamo o meno per le nostre libertà. Il più importante servizio per la nostra società è essere cittadino. E la democrazia ha bisogno di te. «Lace up your shoes / allacciati le scarpe» e vai fuori a organizzare, una petizione, una raccolta di firme, una chiacchiera con i vicini, con la gente reale.

È a questo punto che Obama nomina e omaggia la sua compagna, la madre dei suoi figli, la sua migliore amica, Michelle. Michelle LaVaughn Robinson, la ragazza del South Side di Chicago. E la platea dei ventimila del McCormick Center si alza in piedi per applaudirla. La popolarità della ragazza del South Side è alle stelle, il 73 percento, anche più di quella di Obama, che lascia la presidenza con il 58 percento di simpatia popolare, terzo dopo Clinton e Reagan.

E è qui che pronuncia quella frase che tutti si aspettano che dica: «I won’t stop; I will be right there with you, for all my remaining days / non mi fermerò, sarò qui con voi, per tutti i giorni che mi rimangono». Obama non è pronto per giocare a golf in Florida. E questa è proprio una buona notizia. Yes, we can.