PHOTO
IMAGOECONOMICA
«Può l’Italia acconsentire all’estradizione di un cittadino straniero in un Paese dove, soprattutto nell’ultimo periodo, lo Stato di diritto è sospeso?».
È questa la domanda che si pone parlando con il Dubbio l’avvocato Flavio Rossi Albertini, legale insieme a Stefania Calvanese, di Yaeesh Anan Kamal Afif, cittadino palestinese classe 1987, rinchiuso nel carcere di Terni dal 29 gennaio a seguito di una richiesta di estradizione con l’accusa di terrorismo da parte di Israele, accolta dal Ministro della Giustizia Nordio.
La storia politica di Anan è molto articolata e come ci spiega il suo legale «trova la sua genesi nella Cisgiordania occupata, quando l’esercito israeliano colpisce mortalmente la sua giovanissima fidanzata. Anan, all’epoca dei fatti quattordicenne decide di entrare nella formazione delle brigate martiri di Al aqsa e nel corso degli anni partecipa alle attività di resistenza condotte dalla stessa. Nel 2004, a sedici anni, quale riconoscimento dell’impegno profuso riceve da Arafat il grado di ufficiale».
Dopo varie peripezie, dopo aver rischiato la vita a seguito di un agguato dell’esercito israeliano ed essere stato operato in Norvegia, arriva finalmente nel nostro Paese e ottiene la protezione speciale nell’anno 2019, proprio in virtù del rischio di sottoporsi a trattamenti inumani e degradanti o a persecuzione in caso di espulsione nella zona di provenienza. Nell’istanza di revoca della misura cautelare presentata alla Corte di Appello de l’Aquila i due legali sottolineano due questioni per i quali il loro assistito non dovrebbe essere estradato: esiste il rischio concreto ed effettivo che il ragazzo venga sottoposto a trattamenti inumani e degradanti; vige la «clausola di non discriminazione» a fronte del crimine di apartheid di cui è accusato lo Stato di Israele da diverse ong internazionali.
È stata la stessa Corte di Cassazione nel 2020, accogliendo la richiesta israeliana di estradizione di un proprio cittadino, giustificandolo proprio nel suo «non essere palestinese» e dunque non a rischio di subire condizioni di detenzione che violano il diritto internazionale, a sostenere, condividendo i rapporti di Amnesty International e Human Rights Watch, che in Israele ci sono condizioni detentive non rispettose dei diritti umani, e il ricorso sistematico e impunito alla tortura.
Tale situazione, secondo i legali, persiste ancora: «Amnesty International e Human Rights hanno recentemente ribadito come Israele torturi sistematicamente i prigionieri palestinesi, non solo nelle forme più manifeste e più eclatanti che il termine stesso evoca, ma con una prassi di interrogatori che sfociano nella tortura per le modalità con cui sono praticati, e che determinano spesso la confessione estorta, che chiaramente discende dai metodi violenti utilizzati e che pertanto non può essere ritenuta veritiera, proprio perchè è l'unico strumento di cui il detenuto dispone per sottrarsi a siffatte pratiche».
Nel rapporto si legge ancora che i soldati «picchiano e umiliano i palestinesi dopo averli bendati, denudati e avergli legato le mani, nonché obbligati a rimanere a testa bassa ed a inginocchiarsi a terra durante la conta dei detenuti e a cantare canzoni israeliane. Ancora, viene dato atto dei trattamenti inumani e degradanti attuati in prigione, consistenti nel fatto di negare ai prigionieri già condannati le visite di familiari e avvocati, di tenere i detenuti in celle sovraffollate, di negare loro esercizi all’aperto e di imporre crudeli punizioni collettive come non fornire acqua e luce per lunghe ore. Si tratta, di fatto, dell’intensificazione di trattamenti crudeli e inumani ai danni dei detenuti, in violazione del divieto di tortura e altri maltrattamenti».
Inoltre, come emerso dal Rapporto delle Nazioni Unite Unite del giugno 2022, «sono stati ampiamente documentati casi di reclusione in celle insalubri e sovraffollate, privazione di sonno e cibo, di esercizio di attività fisica, negligenza medica, percosse violente e prolungate, nonché altre forme di maltrattamenti tra cui rientrano aggressioni sessuali». Altro argomento addotto dalla difesa è quello per cui secondo la Cedu «l’espulsione eseguita da uno Stato contraente può sollevare un problema riguardo all’articolo 3 e quindi rendere responsabile lo Stato in causa ai sensi della Convenzione, quando ci sono seri motivi ed è verosimile credere che l’interessato, se lo si espelle verso il Paese di destinazione, correrà il rischio di essere esposto a trattamenti contrari all’articolo 3 che proibisce in termini assoluti la tortura o le pene o trattamenti inumani e degradanti».
In un altro caso sempre la Corte europea ha sottolineato la violazione dell'art. 6 della Convenzione, ossia del diritto a un equo processo, quando esiste un rischio di «flagrante diniego di giustizia» in caso di espulsione o estradizione determinato dall'utilizzo di prove ottenute sotto tortura. Intanto dal giorno dell’arresto Israele ha 40 giorni per formulare una più completa richiesta di estradizione, adducendo materiale a supporto. Il 12 marzo ci sarà presso la Corte di Appello del capoluogo abruzzese una udienza camerale. Il Movimento Cinque Stelle ha presentato una interrogazione a Nordio e al Ministro degli esteri Tajani: quest’ultimo ha già re- impallato la responsabilità al collega di Via Arenula.