Il tetto del mondo è in fiamme. Lunedì e martedì la capitale nepalese, Khatmandu, e le città di Itahari, Biringar e Bharatpur sono state inondate da maree di manifestanti che hanno protestato contro la corruzione, il nepotismo della classe dirigente e l’autoritarismo del governo. La reazione della polizia ha provocato 26 morti e più di 600 feriti causando la risposta dei manifestanti che hanno preso d’assalto i palazzi del governo e le case di diversi politici tra cui quella del premier, Khajda Prasad Sharma Oli, la cui moglie si trovava in casa ed è ora in fin di vita per le ustioni riportate nell’incendio, e quella del presidente, Ram Chandra Paudel, fuggito in elicottero. I manifestanti hanno attaccato il carcere di Nakhu, liberando più di 7.500 detenuti tra cui il presidente del Partito nazionale indipendente (Rsp), Rabi Lamichhane, che si trovava in carcere dal 4 aprile scorso, accusato d’appropriazione indebita. Martedì, a seguito della repressione violenta operata dalla polizia, il ministro dell’interno, Lanush Lekhak, ha dato le dimissioni, seguite da quelle del premier Sharma Oli, rassegnate «affinchè si possano intraprendere passi verso una soluzione politica».

La fotografia del Singha Durbar, palazzo sede di numerosi ministeri e uffici governativi, divorato dalle fiamme ha fatto il giro del mondo, così come il video in cui si vede il ministro delle finanze nepalese, Prasad Paudel, inseguito, percosso, spogliato e gettato in un fiume dai manifestanti. Dopo due giorni di scontri le strade di Khatmandu sembrano un teatro di guerra. Ad ogni angolo barricate e macerie, veicoli ridotti a carcasse fumanti, edifici saccheggiati e alte colonne di denso fumo nero che si alzano dal parlamento e da diverse zone della città. Ieri l’esercito, per fermare l’ondata di violenze, ha proclamato un coprifuoco, inviando truppe e carri armati in diverse città per pattugliare le strade e garantire il rispetto della misura che prevede il divieto assoluto di uscire di casa, eccezion fatta per i servizi essenziali e d’emergenza, come ospedali e vigili del fuoco, che rimangono operativi. In un messaggio video, il capo di stato maggiore nepalese, il generale Ashok Raj Sigdel, ha esortato «tutti i gruppi coinvolti nelle proteste a tornare alla calma e a impegnarsi nel dialogo».

La scintilla che ha innescato l’incendio e fatto esplodere la rabbia dei giovani nepalesi è stato il blocco di 26 piattaforme social, tra cui Whatsapp, Facebook, X, Instagram, Viber e YouTube, scattato lo scorso 4 settembre, giustificato dalla necessità di controllo e contenimento di notizie false e contenuti d’odio. Ad agosto il governo nepalese ha varato una legge che obbliga le piattaforme social a registrarsi presso in ministero delle telecomunicazioni, pena il blocco, entro il 3 settembre. Blocco che è scattato per la non ottemperanza alla legge delle società proprietarie delle piattaforme. L’unico social a non essere stato soggetto al blocco è Tik Tok, lasciato operativo per non incrinare i rapporti con la Cina, Sharma Oli è vicino a Xi Jinping, ha partecipato alla parata del 3 settembre a Pechino e al precedente vertice Sco di Tianjin.

Una dimostrante ha detto alla Bbc che «più che sul blocco dei social penso che tutti si concentrino sulla corruzione. Vogliamo indietro il nostro Paese. Siamo venuti qui per fermare la corruzione».

Il Nepal è uno Stato culturalmente feudale che è stato retto per più di due secoli da una monarchia assoluta. La repubblica è stata proclamata nel 2008 a seguito della guerra civile, che ha provocato circa 13mila morti, innescata nel 1996 dal Partito comunista nepalese, di cui Sharma Oli è l’attuale presidente, e terminata nel 2006. Date le tensioni esistenti tra le varie forze ribelli dal 2007 al 2011 una missione politica dell’Onu ha supportato il processo d’implementazione della pace.

Secondo i dati della Banca Mondiale ha una popolazione di circa 30 milioni, di cui il 7% risiede all’estero, il Pil pro capite è di 1.447 $, il più basso dell’area del Sud-est asiatico, per fare un confronto quello del Banlgadesh è 2.593 $. Il tasso di disoccupazione è al 10,7% mentre la disoccupazione giovanile è quasi al 21%. L’economia nepalese fa affidamento sulle rimesse inviate dai cittadini che lavorano all’estero e che nel 2024 hanno rappresentato il 33% del Pil. Il paese himalayano si trova inoltre alla posizione 107 su 180 con un punteggio di 34 su 100 del Transparency index score, classifica che indica i livelli di corruzione in oltre 100 Paesi nel mondo; più il punteggio è basso e maggiore è la presenza della corruzione nello Stato.

La generazione di giovani nepalesi che è scesa in strada negli scorsi giorni vuole un cambio radicale, si sente tradita dal governo, accusato di nepotismo e corruzione. La maggior parte della popolazione vive in uno stato di semi indigenza, tagliata fuori dalle opportunità educative e lavorative riservate all’elite del Paese, mentre i membri della classe dominante e i loro figli, i cosiddetti “nepo babies”, vivono nel lusso e nell’agiatezza. Come raccontato da Dipesh Karki, professore della Kathmandu business school, all’emittente Al Jazeera, un esempio di questo sistema è Sayuj Parajuli, figlio dell’ex presidente della Corte suprema nepalese, Gopal Parajuli, che all’inizio della settimana ha pubblicato su Tik Tok un video in cui ostenta un tenore di vita da sceicco tra macchine di lusso e cene in ristoranti sfarzosi. «I social mostrano fasto e ricchezza / visti dagli occhi di povertà e tristezza / l’equilibrio si spezza» canta Guè nella canzone Milly. Di certo l’equilibrio si è spezzato in Nepal e il futuro da scrivere.