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Non può essere casuale, la scelta di Raffaele Cantone di entrare nella “contesa” su Consip. E non deve essere stato banale e “leggero”, per il presidente dell’Authority Anticorruzione, esprimere una valutazione pure molto generale su un caso giudiziario che contrappone due diversi approcci della magistratura. «Finora è emerso un solo episodio di corruzione di un medio funzionario: tangente di 100mila euro in 5 anni senza un solo appalto di cui viene contestata la regolarità». Non è solo un invito a ridimensionare la portata mediatica della vicenda: Cantone guarda anche ad altro. Comprende che sui metodi messi in campo dalle due Procure coinvolte si gioca una partita più ampia. Ed entra in questo confronto. Che è anche un processo di ricerca di nuovi equilibri. Parlare di “scontro” tra i pm di Roma e quelli di Napoli è inappropriato per un motivo molto semplice: gli uffici giudiziari non possono “fare politica”. Il confronto può trasferirsi casomai al Consiglio superiore della magistratura, dunque tra le “correnti”. Il procuratore capo della Capitale Giuseppe Pignatone non può far altro che lavorare sul fascicolo Consip secondo il metodo che ritiene più funzionale. Sarà inevitabile, questo sì, confrontare la sua impostazione con quella che alla stessa indagine aveva conferito la Procura di Napoli. E anzi la “competizione” tra i due modelli è già in corso da settimane.
Cantone è un magistrato non amatissimo dai colleghi. Non l’hanno trattato bene al Csm. Non gli ha mai riservato parole particolarmente affettuose neppure l’ormai ex presidente Anm Piercamillo Davigo. Che spesso ha anzi definito l’Anticorruzione «inutile nel perseguimento di reati contro la pubblica amministrazione». Non a caso qualche giorno fa Cantone ha parlato del suo rapporto col sindacato delle toghe, aveva spiegato che nell’ultimo anno aveva fatto fatica a «non andare a restituire la tessera» e a camcellarsi, «ma mi sono reso conto di aver fatto bene dopo che ho sentito le cose che ha detto Albamonte».
Ci sono due magistrature che si confrontano, in questo momento. Una attenta, rigorosa, ma prudente nel valutare gli effetti sul contesto, nel non superare il senso ultimo della funzione inquirente, ed è questa l’impostazione seguita da Pignatone. C’è un altro modello di indagine, basato sulla convinzione che oggi ai magistrati tocchi fa- re pulizia, condurre una missione salvifica, scovare il “marcio” nelle istituzioni anche a costo di qualche clamore eccessivo: spesso questa è sembrata la logica di fondo seguita dalla Procura di Napoli, e in particolare da Henry John Woodcock. È inevitabile che Cantone si renda conto di come il confronto tra questi due modelli sia arrivato, con il caso Consip, a una stretta decisiva. E così il magistrato napoletano, e presidente dell’Anticorruzione, ha fatto sentire il proprio peso, ha detto con chiarezza quale delle due impostazioni preferisce. E poi è inevitabile che se si parla di funzione salvifica, Davigo possa essere considerato alfiere di quella magistratura convinta di doverla esercitare. E tutto torna, dunque: Cantone si sente «di nuovo a casa», nell’Anm, ora che al suo vertice c’è un esponente di una magistratura attenta ai diritti, di ispirazione “progressista”, come Albamonte. Il presidente dell’Anac riprende una delle questioni sollevate da Pignatone all’incontro organizzato dal Cnf su “Inchieste giudiziarie, diritto di cronaca e tutela dei dati personali”: ovvero la necessità di modificare completamente il rapporto tra stampa e uffici inquirenti. «Bisogna uscire dall’ipocrisia», dice Cantone alla Stampa a proposito di Copnsip, «questa vicenda è paradigmatica di un malcostume: non si può più far finta di niente. Bisognerebbe consentire ai giornalisti di accedere in modo trasparente agli atti a disposizione degli avvocati ma dare rilievo penale alla pubblicazione di atti segreti». Su questo, al dibattito di mercoledì scorso, il procuratore di Roma ha indicato alcuni paletti: la comunicazione da parte degli uffici inquirenti è «necessaria» ma «vanno evitati assi privilegiati tra alcuni cronisti e alcuni magistrati». Parole molto chiare a cui evidentemente Cantone ha ritenuto di doversi associare. È anche questo un modo per uscire appunto dal non detto, per evitare che l’approccio spettacolarizzato di alcuni pm con il loro lavoro si trasformi di fatto in un pericoloso protagonismo. Ed è anche evidente come l’idea di dover salvare il mondo sia strettamente connessa con questo modo di rapportarsi con i media. Non è un caso neppure il passaggio in cui Cantone, sempre nell’intervista uscita ieri, parla di Davigo: dice di stimarlo «come ottimo magistrato» ma anche che «da presidente dell’Anm ha dato la sensazione di una visione manichea dei magistrati, unici portatori del bene». Tutto chiaro. Colpisce la scelta del momento: Cantone entra nel dibattito in uno snodo che evidentemente giudica decisivo. Forse lo è. Anche se prevedere ora quale ne possa essere l’esito sarebbe azzardato.